rassegna stampa da L’ALPINO

periodico dell’Associazione Nazionale Alpini

L'anima dell'Alpino
di *Italo Lunelli

pubblicato il 15 novembre 2015
testo trascritto da Giuseppe Martelli





il titolo dell'articolo pubblicato sul giornale
L'ALPINO n° 17-18 del 5 settembre 1920

Agli Alpini Caduti.
Ritessere quella corona di martirii inconsci che gli Alpini d'Italia offrirono con cuore semplice e spontaneo alla Vittoria, raccogliere infiniti sacrifici silenziosi, enumerare le morti che cingono come di una corona solitaria di croci le Alpi redente, rivedere i cigli, i pendii, le erte, i pascoli, i boschetti, le rocce, le nevi alte bagnate di sangue, sparse di arti mutilati, benedette dagli ultimi rantoli dei morenti, raccogliere la parola estrema consegnata ad umili lettere famigliari, portare a mano vicino alla croce silenziosa i nostri fratelli perché sappiano di che sangue e di che dolore è cementata la libertà che oggi spira sulle Alpi e sul mare, scolpire i loro nomi sul marmo, scolpirli nel cuore di ogni italiano perché non dimentichi. Tutto questo dovremmo ai nostri umili Alpini caduti.
Che canterà la grande epopea vissuta sui cigli nevati delle Alpi in un incendio sanguigno? Chi mai salverà dall'oblio tanti sacrifici cruenti e silenziosi? Il poeta che avrà vegliate le loro notti glaciali, che avrà lottato corpo a corpo con il nemico sull'orlo di un dirupo, o sull'erta di un nevaio, che avrà scortato i loro segantiniani cortei funerei o che avrà con loro sofferto la fame e sfiorata la congelazione, che avrà con loro traversati valloni precipiti e creste aeree carico di casse o di tavola a spalla, che avrà con loro versato il proprio sangue, che avrà con loro cantato le canzoni ampie e nostalgiche. Quegli potrà cantare l'epopea degli Alpini, quegli potrà destare nel popolo italiano tutta l'ammirazione e tutto l'amore che sono dovuti a quei omerici eroi dell'Alpi, a questi pionieri della Patria. Sulle loro forti braccia alzarono tanto alta e serena questa loro Patria diletta quanto sono alte e serene le loro vette, e segnarono tanto alti e intangibili i suoi confini quanto alti e intangibili sono le nevi invernali dei loro monti.
La tempra degli Alpini.
Che diede alla Patria questi eroi? L'Alpe. L'Alpe li ha educati, preparati, misurati, equilibrati quasi consci che l'Italia, la grande Sorella, un giorno avrebbe avuto bisogno di uomini eccezionale per la sua più alta epopea. Li ha educati attraverso grandi prove. Sono cresciuti stentando la vita in un paesetto sperduto fra una grande valle alpina e sepolto per mesi dalle nevi dalle nevi inospitali. La terra è avara di messi, e la primavera tarda e breve. Di che vissero? Di stenti. La maggior parte esulavano la gran parte dell'anno o in lunghi anni in terre di tutta la Terra, a stentare, a profondersi nel lavoro: conobbero parecchie nazioni, parecchie lingue, parecchie regioni di quà e di là dal mare. E tornarono al paesetto, e vi costruirono le loro case, contenti di vivere in quella valle inospitale, in quel paesetto «gramo» fra quei monti terribili e severi, ma però grandi e amorevoli. Lontani, vivono inqueti. Il montanaro prova la nostalgia dei propri monti. Solo fra i propri monti è «lui». Oh! l'Alpe! Chi ha vissuto con gli alpini ha aggiunto una nuova famiglia alla propria famiglia, perché alla vita di guerra, essi hanno sinceramente partecipato con tutte le qualità della loro vita spontanea, vi hanno portato tutti gli slanci semplici e fervorosi di una giovinezza primitiva raccolta in semplici affetti, vi hanno portato l'abitudine del sacrificio, considerato come un elemento di ogni giorno. Alla guerra erano fatti e maturi. Chi ha vissuto con gli Alpini, diviso le loro sorti, partecipato alle loro intime solennità, chi ha seguita la vita di una compagnia di questi montanari guerrieri, chi li ha compresi nella loro grande anima, chi ha provato i loro dolori, chi ha sentita la fanciullezza spensierata delle loro gioie vere, chi li ha visti da vicino questi Alpini nella guerra, ha notato che essi hanno uno stampo ben caratteristico. Il loro passo, la loro pesantezza nello stare, il modo delle loro riunioni quasi solenni, le loro marce ritmiche e lente come lunghi cortei di leggenda, le loro canzoni che hanno un'arcata di posatezza beethoviana non vi fanno forse pesare a scene omeriche o rivivere in piena luminosità le ampie composizioni segantiniane? Questo degli alpini è un quadro tutto particolare, di un colore intenso, che si stacca dallo sfondo comune della guerra e si cinge di una atmosfera tutta caratteristica; ha i colori delle aurore alpine e la severità di linea dei loro picchi; ha la cadenza dei torrenti e delle valanghe; ha la primitività dell'Alpe vergine e pensosa.
Veramente fu un'epopea nell'epopea la vita degli Alpini in guerra. E nella storia del nostro Risorgimento, questa leggendaria epopea degli Alpini, è per noi la più cara, e la più grande. In essa ritroviamo tutta la poesia dei nostri monti e delle nostre valli, la poesia della nostra giovinezza alpestre, la gente dell'Alpe sacrificata in pace come in guerra, semplice in pace, come in guerra, placidamente eroica in pace come in guerra. Dalla vita degli alpini spira tutta la grandezza dell'anima montanara. La contentezza dell'uomo che deve duramente fecondare un povero campo conquistato alle rocce avare, il carattere tenace dell'emigrante che si mantiene puro e dignitoso e fa ritorno al paesetto natio, la forza e la destrezza della guida alpina, la riflessione dell'uomo che conosce tutte le insidie dei propri monti e le ha studiate una ad una e sa avvertire la valanga e il temporale, la sincerità dell'uomo abituato alle solitudini, la semplicità delle anime che si acquietano nella vita del paesetto, candidamente raccolto attorno alla chiesuola melodiosa fra gli alti pascoli. La grandezza dell'anima montanara scaturisce forse da tali elementi. Ingenuità e forza, intelligenza e carattere, tranquillità e coscienza. Una grande calma intima, vegliata da una sensibilità sana e ragionevole, è la vera qualità dell'Alpino. Paziente, sano.
Nella bassa.
Gli Alpini nella bassa. C'è chi dice che l'alpino è alpino in quanto fa la guerra sulle Alpi. Non è vero. L'alpino è alpino in quanto ha le qualità morali che ha, sia egli su vette altissime o al piano. Ovunque si rivela grande. La 34ª del Batt. Susa. Che razza di gergo parlano? Piemontese. Reduci dal Monte Nero, dalle giornate di Monte Rosso, sono a riposo presso Caporetto. Capito in tenda con tre padri di famiglia, posati e sapienti. Il mio arrivo in compagnia è commentato. Dicono con un certo tono di sprezzo «volentieri» come dire «capo scarico». Tutti ostili. Ragionano: «I giornalisti sono tutti bugiardi, vogliono fare la guerra alla Germania, ma rovineranno l'Italia; è per loro che siamo qui a fare questa vita grama». Parlo con molti, cerco di persuaderli, ma non riesco. Povera Italia. I tre padri di famiglia ridono molto amorevolmente delle dispute, ma sono persuasi anche loro che la guerra è uno sbaglio ecc. ecc. Noto che i piemontesi sono duri e testardi. Più testardi che duri. La mia impressione è penosa e penso che il battaglione si sfascierà al primo urto. Ordine di partenza, zaini in spalla. Bestemmie, brontolìo, mormorìo generale. Che avverrà? Però le tende spariscono una a una e gli zaini si affardellano; ogni soldato è armato e carico. I plotoni si incamminano giù per un sentiero mentre scende la notte. Sei ore di marcia. Piove. Attraverso i campi di melica, oltre i muriccioli, sopra passerelle, attraverso frutteti, in una oscurità perfetta, tenendosi a contatto, attaccati uno allo zaino dell'altro, in fila indiana. Tocca ritornare perché la guida ha sbagliato sentiero. Soste lunghe mezz'ore. Siamo vicini alle trincee di Dolye. Scena testoiana. Da Volzana a Tolmino a S. Lucia a Komenka, tutta la valle arde di incendi; fattorie, ville, fienili, ardono. Frastuoni continui di granate in arrivo, vampe. Pioggia fitta. La compagnia sembra brancolare nell'oscurità: siamo esausti, e pure ora viene il bello. Osservo con grande meraviglia che ora nessuno si lamenta. Tutti tranquilli, calmi, pazienti: sembra abbiano lo scrupolo di non turbare la calma altrui. Ognuno nella sua dignità è esempio agli altri. E' una tortura attendere così sotto la pioggia, dopo una notte di marcia per entrare in trincea. Ma nessuna bestemmia ora si propaga. Qualcuna si sente, ma in tono benevolo. Noto che quei rozzi uomini hanno della coscienza. Due giorni e due notti in trincea avanzata, poi un'altra lunghissima marcia notturna. Si attraversa Monte Cuc. All'arrivo, attacco al ponte di S. Daniele. Dopo pochi giorni attacco a S. Maria. Siamo esausti e qualche momento desideriamo la morte per finirla. Giorni e notti di fatiche, disagi orribili, fame spesso, morti; le file sono diradate, sangue ovunque, sempre sangue, fino alla nausea. E' orribile. E non si lamentano. Anzi, ho osservato che più grave è il pericolo e più doloroso il disagio, meno brontolano e meno si lamentano. Hanno il pudore dell'uomo cosciente che sa il valore delle proprie parole. Non parlano di neutralismo; ma si battono senza parlare. Questa fu la mia prima scuola di guerra, e che scuola! Santi soldati scalcinati del «Susa», quanto non ho io imparato da voi in quei giorni. Il 15 settembre abbiamo un contrattacco nemico sul lato sinistro di S. Maria, il nostro plotone è disteso sul suolo dinanzi alla trincea; avvisati a tempo dell'attacco attendiamo il nemico in agguato: la trincea è alle nostre spalle. Il nemico è vicino a noi, non si immagina una tale sorpresa, cade in bocca al lupo. Il lupo questa volta è l'alpino. Una scarica fitta e decisa seguìta da un fuoco accelerato: il nemico ha molti feriti: si stende a terra, risponde. Fuoco d'inferno da ambo le parti. I nostri sergenti erano in piedi. Stare in piedi voleva dire morte certa. Perché stare in piedi? La calma dei soldati dipendeva da questa sprezzante calma dei graduati. Sparavano come fossero al bersaglio. Abbiamo morti e feriti anche noi. Il sergente Borla è sempre in piedi e gira da un punto all'altro e dice: «adagio e calma». Calma di un Dio. Il nemico rallenta il fuoco, si ritira. Noi dietro alla baionetta.
Ecco l'Italia ove si rivela. Non negli articoli dei giornali, non nel chiasso di certe dimostrazioni. L'Italia si rivela qui, nel cuore umile e nel polso fermo di questi alpini, che pochi giorni prima a parole si ridevano del dovere di italiano, ma ai fatti hanno dimostrato d'essere galantuomini d'una fede certa e di una saldezza granitica. Seguì il M. Vodil. Attacco al trincerone del M. Vodil, sempre gli stessi soldati, i superstiti. Piove da 15 giorni (dio faus!), fango profondo, una crosta di fango sopra e sotto il vestito, tutti hanno le ginocchia gonfie e freddo. Da quaranta uomini il plotone è ridotto a sette. Giungono i complementi e giungono brontolando come gli altri. Ma questa notte, alla solita fucileria saranno gli uomini del «Susa». Il «Susa» era considerato il battaglione più scalcinato del 3° Alpini. Benedetta scalcinatura! In fatti, a riposo, il vino che bevevano! Ma l'uomo si conosce al pericolo, dinanzi alla morte, perché allora è pienamente sincero. Trovai in essi gentilezza e delicatezza d'animo da commuovere; e divenni loro amico; cercavo la loro amicizia, come un segno del mio valore. Lasciamoli dunque brontolare e mettiamoli alla prova. Qui li vedrai. Ecco che cosa insegna la scuola di guerra degli alpini.
Sulle altissime vette.
Eccoli nel loro elemento. L'Alta montagna. Due forze che si contrappongono. L'elemento terribile della montagna solitaria è l'uomo. L'uomo che ne è il figlio temprato a sopportarla, a conoscerla, a seguirla, ad accarezzarla; ma per vincerla. L'alpino però non è alpinista. Egli è figlio dei monti, non può vivere che tra i monti, è camminatore instancabile, portatore, esperto dei pericoli dell'alta Alpe; esperto del tempo. E' montanaro ma non è alpinista. Grande sorpresa per quanti di noi siamo più alpinisti che alpini. Al mio primo contatto con gli alpini in alta montagna rimasi interdetto. L'alpino che vi segue nelle più lunghe traversate senza mai dare segno di stanchezza, che ha confidenza con la neve, col ghiaccio, non sa arrampicare. Parlo della massa. Egli non ha mai concepito lo sport delle Alpi, perché per lui la montagna è la sua Patria, una cosa superiore e intangibile, imminente nella sua vita come una legge qualche volta paurosa, qualche volta benigna, ma sempre severa. Egli sugli alti picchi c'è stato per delle ragioni di necessità. Magari per contrabbando. La montagna l'ha percorsa anche sulle vette altissime, ma con un senso di fatalità, subendo il panico misterioso delle alte zone alpine e conscio dei pericoli. Le sue gite nell'alta montagna egli le fece carico come un mulo o costretto dalle necessità del suo mestiere. Non si arrampicò mai, nemmeno per ischerzo. Egli gira le difficoltà prudentemente e sapientemente; trova il passaggio ragionevole, crea il sentiero. I tracciati dei sentieri d'alta montagna sono dei capolavori di buonsenso. Sale scende e sale e scende interminabile scavalcando falde, entrando in insenature, seguendo cigli e cengie, salendo erte, oltre speroni, per scese, lungo nevai e su per vedrette, oltre bocchette. Fa un rigiro intricato come un labirinto, ma trova alfine il passaggio; crea il sentiero, senza doversi arrampicare. L'uomo paziente e tenace alla prova. La poesia della montagna per l'alpino è una poesia di riflesso: circuisce e suggella tutti i suoi affetti famigliari come una regione patria e lo accarezza nella sua natura perché per lui è l'orizzonte del nido dove vivrà e morrà. E' montanaro, ma non alpinista.
Accompagnavo in coda una lunga coorvèe, dopo tre ore di marcia nella neve, lenta, silenziosa, sotto le stelle, in una notte trasparente attraverso un nevaio. Guai a chi sbatte un asse contro la roccia o a chi lascia cadere una cassa di galletta. La corvèe porta tavole, stufe, casse di galletta, latte di petrolio, cartone catramato, chiodi, munizioni da fucile, bombe. A un certo punto il primo uomo si ferma sotto una parete a picco: posa sulla neve il suo carico. Guarda in alto. Oh la parete superba! L'orlo più alto è un ciglio sporgente a piombo sopra il capo e penzolano corde e scale. Duecento metri di vuoto. Ombre si muovono lassù. La parete però sale ancora e non si vede che finisca. Gli uomini della coorvèe scaricano tutti a uno a uno in silenzio sulla neve e tornano sulle piste per riprendere altro materiale. Avete visto di lassù in cima scendere una fila di uomini calandosi per le corde che penzolano qua e là nel vuoto? Che spettacolo! E poi una fila di uomini neri issarsi faticosamente e lentamente da un crepaccio all'altro di quella immensa parete perpendicolare che sembra fondersi nel cielo? Salgono carichi come gli altri. Portare su una cassa di galletta sulle spalle è una fatica enorme. Così tutta la notte, anche quando il nevischio venta in faccia tante lame e tante spine gelate e vi riempie la bocca e il collo e gli occhi e le maniche e le tasche di neve che si attacca, si addensa, sgela e risgela e vi ricopre di una crosta di ghiaccio. A metà salita, a malapena capace di un corpo d'un uomo rannicchiato trovate un alpino che si soffia su una mano e le sbatte contro le ginocchia e pesta i piedi e mugola come un cane ferito. E' la congelazione. Bisogna issarlo subito, se no crepa qui. E lo issano. Così per molte notti perché l'attacco parte di lassù. Di lassù? Parte di lassù. Ma il nemico è vicino, se li scorge picchietterà senza misericordia quegli uomini sulle scale a uno a uno, come i camosci dopo la «parada». Dunque massimo silenzio. Bisognava avanzare di notte, portarsi dietro le sue posizioni, procedere senza far rumore con il tatto del gatto. Gli capiteremo alle spalle. Prenderemo il cecchino che spara pallottole dum-dum. Gli occhi dei soldati si ingrandivano e splendevano per la bellezza e l'audacia dell'azione. Sono convinti. Quando sono convinti si ottiene tutto, anche l'impossibile. L'Alpino diventa alpinista. Al di là di quel picco si stacca una cresta su due abissi immensurati, battuta dalla tormenta rabbiosamente. Che raffiche! Questa lunga cresta finisce ai piedi di un massiccio che culmina nella Cima Undici. Pareti e canaloni pieni di nevi. Bisogna arrivare in cima e oltre. Il tenente ha lavorato due notti per attaccare corde lungo la cresta: l'attendente che lo accompagnava ha avuto una mano congelata. Sfido! Febbraio, 3000 metri. Le valanghe hanno travolto la compagnia che da fondo valle Giralba, a 10 ore di cammino, portava il materiale per avanzare. Isolati e tormenta. E' un plotone della 68ª del Batt. «Cadore» e alcuni skiatore del «Fenestrelle». La terza notte gli uomini si calano per le corde giù per la cresta, carichi da sbalordire. Passo a passo da una corda all'altra superano la cresta. Parecchi congelati. Dopo quindici giorni altri soldati (quei primi sono quasi tutti fuori uso) si erpicano fra la tormenta o nella notte su altre corde, fra le pareti della Cima Undici. Lunghe coorvèe notturne, senza una voce su per corde che la tormenta aveva fatte tre volte più grosse. Le mani dolorano atrocemente e sanguinano. Però sono diventati scoiattoli. Non si impressionano nè dell'abisso, nè del vuoto, nè della tormenta. Guide. Un soldato è scivolato ed è sparito giù per una parete che precipita più di mille metri nella valle del Backer. E' sparito, silenzioso. La coorvèe continua. Dove metteremo la sua croce? Chi lo troverà? Quando? I soldati arrivano lassù. C'è un buco scavato nel ghiaccio sotto la cima. Mugulano per il gelo e hanno sempre un principio di congelamento. Frizioni, cioccolato, un motto allegro, perché il tenente è sempre allegro. Poi «via» giù, svelti. L'alpino, e in genere il soldato, è come un bambino. Un pezzo di cioccolato e un motto, e ha già dimenticato il suo dolore. Ma quando quel soldato li, mezzo congelato ed estenuato deve arrampicarsi ancora per due volte lassù con un tale carico in questa stessa notte di tormenta, allora è un problema grave. Allora bisogna accarezzarlo. «Vedi, noi qui aspettiamo da voi tutto, la tavola per non dormire sul ghiaccio, il petrolio per riscaldare la scatoletta che è dura per il gelo come un sasso, gelata, per scaldare la galletta che è un pezzo di ghiaccio. Altrimenti domani non si mangia. Aspettiamo da voi le corde per andare avanti e prepararvi la strada, altrimenti il nemico finirà per scoprirci e sarà finita. Poi aspettiamo da voi le bombe per l'attacco». Così il soldato, arrivato lassù inviperito contro il destino, la tormenta, il congelamento, bestemmiando, giurando di non voler fare mai più questa vita di tormenti, diviene mansueto, si convince, parte silenzioso e rifà il Calvario atroce. Ritornavano tutti per la terza volta quando l'alba schiarisce con brividi di gelo le rocce. Grandi cuori semplici, meravigliosi soldati del Batt. «Cadore». «El xe el purgatorio dei vivi» dice Zardorela, scaricando sulla neve l'ultimo dei carichi issato su. Zardorela, da quella bocchetta eccelsa vede giù fra la neve biancicante il suo paesetto di Cardide, ove entro una casetta i suoi bimbi lo chiamano risvegliandosi dal sonno. Ora Zardorela ha la barba che è tutta un pezzo di ghiaccio con il bavero, e non può girare la testa. Effetto della tormenta. Zardorela guarda e guarda. Quale tentazione per un cuore umano! E chi è Zardorela in fondo? un semplice soldato ordinato a soffrire e soffrire, in quell'inferno, comandato domani a morire, senza alcuna soddisfazione personale. Nemmeno il riconoscimento del proprio valore, probabilmente. Ma solo nella sua tomba, se avrà una tomba. Non era meglio battere la fiacca? Già era mezzo congelato. Dunque? Ma questo pensiero non è nemmeno passato per la testa di quell'uomo. Egli rimedia alla congelazione, la vincerà. Egli non ha mai concepito che si possa fingere! E' un uomo. Alpino. «Bravo Zardonela» dice il tenente «domani tenteremo di arrivare su quell'altra cresta là sopra il Passo della Sentinella, e poi attaccheremo. Sei pronto tu?» Eh si, sior tenente!. E l'accento con il quale disse queste parole era accento sincero. Infatti quindici giorni dopo Zardonela e dal Danton erano i due primi soldati della 75ª compagnia del Batt. «Cadore» che si gettavano giù per il canalone quasi perpendicolare, all'attacco del Passo della Sentinella. Avevano più volte giurato di fare la festa ai kaiserjager del Passo i soldati, perché sparavano con pallottole dum-dum. Si vedevano tanto bene dalle bocchette di Cima Undici a tagliare in croce le pallottole e poi sparare contro i nostri piccoli posti della valle. «Fioi de...!» Sorpresi, attaccati con furia da trenta uomini rotolanti giù da un canalone, che credevano inaccessibile, come diavoli, vinti, rifugiati in una galleria. Che macello! Gli alpini entravano furibondi con la baionetta in canna. I kaiserjager erano in ginocchio. Nessuno li toccò. Chiesero pane, e i nostri cedettero loro la propria razione di pagnotta. Da vincitori. Anime semplici di eroi.
Monte Grappa.
Alpino, il monumento che noi ti innalzeremo dovrebbe eguagliare la tua grandezza, sereno e ridente come la tua pazienza. Ma chi lo scolpirà? Quale artefice? Chi lo innalzerà? Alpino, il tuo monumento tu te lo sei eretto tra la terra e il cielo azzurro come la tua calma, puro nei mattini brinati come il tuo cuore, saldo come la tua volontà, misurato in linee equilibrate come il tuo carattere. E' grumato di sangue, lampeggiante di fiamme e di vampe, accesa da lunghi righi di artiglierie lontane. Tu te lo sei eretto il tuo monumento, o geniale fabbro dei destini della Patria. Il tuo monumento è Monte Grappa. Chi vorrà gareggiare con te in genialità? Tu l'hai detto morendo e le tue donne del Feltrino e del Bellunese lo cantavano guardando al Monte che divideva la vita dei loro fratelli e il destino dell'Italia percossa. «Monte Grappa tu sei la mia Patria». Novembre e dicembre 1917. Battaglione Feltre, Monte Pavione, Val Maira, Val Brenta, Val Cenischia, Cadore, Antelao, Belluno. Dove sono i tuoi figli? Tutti morti lassù. Ecco il monumento, Alpino, che ti sei eretto tra la terra e il cielo. E il pianto delle tue sorelle lo ha consacrato. Salgono pel cielo le nebbie dell'Asolone. Sembrano l'incenso dell'Ara. Gridano alti, silenziosi, tutti neve allo sfondo, i giganti liberati. La Marmolada, Cima d'Asta, l'Antelao, il Pelmo, la Vetta d'Italia, il Peralba. Ti guarda con i suoi mille bagliori la Serenissima del mare che tu hai protetta col sangue e salvata con la vita. La Dominante ti guarda. L'Italia ti adora, monumento della vittoria, tomba degli Alpini. Monte Grappa, ossario e mezza fossa guardato dalle stelle, vegliato dai giganti bianchi, cresciuto di mille fiori campestri. Alpino, il tuo monumento è Monte Grappa.
Un quadro leggendario, tutti lo abbiamo negli occhi, ma chi lo potrà descrivere. Le nostre case ardevano, e noi così le lasciammo al nemico. Ardevano crepitando in immense colonne di fumo mentre noi marciavamo in mezzo alla neve per versanti biancicanti di monti, notte e giorno, giorno e notte. La neve cadeva lenta e bianca. Novembre di montagna. Combattimenti in ogni luogo, in ogni direzione. Le retroguardie trattenevano il nemico che premeva da ogni lato. Crepitio di fucileria, radi tiri di cannone. La Patria degli Alpini è invasa. Le nostre case ardevano. Pieve Tesino, Castel Tesino, Cinte Tesino, tre grandi falò rossastri nella notte crepitante di fucileria. Abbiamo lasciato i nostri morti. Il cimitero del Cengello ove dorme Paolo Marconi e i suoi alpini del Batt. «Verona» sotto la neve, sotto gli abeti. Lo calpestano. In riva al Maso pattuglie croate tentano passare. La mitragliatrice si accanisce. Così ci ritirammo. Cartucce e viveri di riserva. Ordine: adunata al Monte Grappa, ultimo baluardo, estremo baluardo, estrema difesa. Pochi sperano. La 148ª del Monte Pavione si trincera a Cima Campo. Deve trattenere il nemico soverchiante, proteggere il ripiegamento delle colonne alpine su Primolano. Sola, contro reggimenti sopravvenenti dal Picosta e da Arina non cede e inizia la resistenza. Combatte 24 ore ed è accerchiata. Resiste e non cede. Occorre distogliere il nemico dall'inseguimento. Le colonne arrivano a Primolano prima che il ponte salti in aria riempiendo di un immenso frastuono la Valsugana. La 148 ridotta a pchi uomini è lassù, sola, abbandonata. Il suo compito è raggiunto. I pochi superstiti sono sopraffatti. La 148 verrà rifatta. Così è la sorte dei reparti in guerra. Rifiorisco dal sangue. Quante volte non rinacque, Battaglione fatale, l'eroicissimo, il Bassano? Da sangue. La 148 rifiorì dal sangue per essere di nuovo recisa nel sangue. A Monte Grappa fra sentieri non bene ti, fra le nebbie, con la neve, i Battaglioni, le Compagnie giungevano dopo tanti giorni di marcia. Il nemico accalca le sue truppe di attacco, in Val Seren. Una catena di Alpini da Col Moschin a Montefenera. Se cede un anello l'Italia è invasa, Venezia perduta. Il maglio nemico ha battuto sulla catena. Gli anelli erano d'acciaio. Battaglioni alpini, temprati dall'Alpe. Il maglio si è infranto nelle mani del tedesco. La 148 respinge sei attacchi, su una posizione avanzata destinata a cedere, ma a caro prezzo, un saliente, destinato ad infrangere la prima foga dell'attacco: Monte Fontanel di Val Calcino. Combatte due giorni e due notti, perde e riconquista la posizione. E' accerchiata. Quaranta uomini superstiti non cedono e si riducono a quindici. Disperatamente gli ultimi attaccano le pattuglie accerchianti e pochi rientrano nelle posizioni nostre. M. Fontanel è costato al nemico almeno tre Battaglioni. Ma il nemico si è arrestato nell'offensiva, che doveva finire a Venezia e non ha più attaccato. Val De Rosa è salva. Il grande attacco nemico è fallito. Ciascun Battaglione alpino ebbe episodi simili nel novembre e dicembre 1917 sul Monte Grappa.
Dalle Alpi al mare.
Al Battaglione Morbegno. «Sino a che il destino dell'Italia sia segnato pienamente». E' questo forse il tuo motto? I tuoi Alpini hanno accompagnato questa grande Sorella, la Patria, nella sua scesa, da quando trepida ella ebbe schierato i Battaglioni sulle Alpi e detto all'Alpino «tu primo apri la via della gloria». Né oggi i tuoi alpini la hanno lasciata, oggi che è più trepida per il suo mare. L'Alpino è con lei. Quel Battaglione che fu tra i primissimi al fuoco quando la grande epopea si apriva con il crepitio dei fucili e ultimo a lasciare il suo posto di «fabbro» dei destini della Patria. Battaglione Morbegno, tenacissimo. Fosti il primo ad attaccare il colosso bicipide al Monticelli, che la guerra era appena dichiarata. Ora sei ancora all'erta, ultimo, fermo sull'altra sponda, ove i destini d'Italia si compiono. Nostri compagni alpini hanno fermato la loro granitica volontà per una nuova grande lotta, cui, se la fede e la coscienza alpina non è perduta, dobbiamo rivolgere le nostre salde volontà, unitamente, tenacemente.
Fiume, l'ultima battaglia, che è fatta di tenacia, di calma, di fibra, di volontà.
Doti dell'Alpino.

Ten. Italo Lunelli
(Trento, agosto 1920)

 

 

 

 


 


*Italo Lunelli, nato suddito austriaco, irredento trentino arruolatosi volontario nell’Esercito Italiano con il nome di guerra Raffaele Da Basso. Aspirante Ufficiale del 7° Rgt. Alpini decorato di Medaglia d’Oro al valor militare per l’azione di conquista del Passo della Sentinella del 16 aprile 1916. Bolognese di adozione per matrimonio, avvocato con studio a Bologna, deputato al parlamento, nuovamente volontario nel 1940 con il grado di Maggiore nell’11° Rgt. Alpini sul fronte occidentale (francese) quindi Ten. Colonnello nel 6° Rgt. Alpini sul fronte greco-albanese. Consigliere Nazionale dell’A.N.A. dal 1950 al 1960. Nel biennio 1951-1952 è stato Presidente della Sezione ANA Bolognese Romagnola. Deceduto improvvisamente a Roma il 25 settembre 1960.
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