Tratto
dal giornale L'ALPINO - ottobre 1993
il massiccio del Cerro Ancocagua |
Nel
pomeriggio di domenica 14 febbraio 1993, sulla vetta
più alta del Continente americano - il Cerro
Aconcagua, 6.962 metri di quota - il tricolore ha sventolato
a fianco delle bandiere argentina e cilena. "Alfieri"
d'eccezione sono stati i componenti di una spedizione
militare internazionale, organizzata dall'esercito argentino
e scaturita dalla stretta collaborazione che da tempo
si è instaurata tra le <Truppe andine>
e le nostre <Truppe alpine>. Collaborazione che
lo scorso anno (si intende il 1992 n.d.r.) si è
rafforzata con scambi di visite tra il capo di Stato
Maggiore di quell'esercito e il comandante del 4°
Corpo d'Armata Alpino.
L'Italia era rappresentata da due ufficiali del comando
4° C.A.A., il ten. col. Bruschi, capo delegazione,
alpinista accademico militare, e il ten. col. Boriero,
guida alpina militare, dal cap. Giannuzzi della "Julia",
istruttore scelto di sci e alpinismo, già esperto
di spedizioni extraeuropee, dal m.llo Bianco della brigata
"Taurinense", pure lui istruttore scelto,
e da due caporali della "Tridentina" con precedenti
esperienze di spedizioni exrraeuropee, il trentino Bertolla
e il bergamasco Gaffuri.
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Un
paio di settimane prima della partenza per l'Argentina,
abbiamo intensificato la nostra preparazione specifica
con una serie di marce sci-alpinistiche a quote comprese
tra i 3.000 ed i 3.500 metri, le più alte praticabili
sulle Alpi nel periodo invernale. Contemporaneamente
abbiamo dedicato una particolare attenzione sia alla
scelta dell'equipaggiamento più adatto a quell'ambiente,
del tutto anomalo rispetto ai "quattromila"
cui siamo abituati noi europei, sia alla ricerca della
maggiore quantità possibile di notizie, mediante
la consultazione delle poche pubblicazioni disponibili
e dei resoconti di alcune precedenti spedizioni.
il primo a sinistra è il ferrarese ten col. Pietro Bruschi
(la fotografia correda l'articolo) |
Così è praticamente iniziato il nostro
"avvicinamento spirituale" a questa montagna,
il mitico Anconcagua, un nome che incute timore e rispetto
solo a sentirlo pronunciare, soprattutto per la fama
che si è guadagnato con le sue improvvise e terribili
tormente di vento e neve - il codidetto "vento
bianco" le cui raffiche raggiungono i 200 Km/h
- e con il mal di montagna - il famigerato "puna"
- che infligge, anche agli alpinisti più esperti
ed acclimatati, malessere generale accompagnato da cefalee,
nausea, insonnia, anoressia e talvolta da edemi polmonare
e cerebrale. E tanta nomea ci veniva confermata anche
da una notizia per noi non certo confortante: soltalto
il 20% delle spedizioni partite per l'Aconcagua ha raggiunto
i 7.000 della vetta.
La nostra avventura prende dunque l'avvio il 2 febbraio
con la partenza da Roma per Buenos Aires, da dove proseguiamo
subito per Mendoza. Li veniamo accolti con grande calore
e simpatia dagli "andini", detti "cazadores",
e facciamo la conoscenza del capo spedizione, maggiore
Valentin Ugarte, esperto andionista figlio di una famosa
guida locale.
Il 6 e 7 febbraio, a Puente de l'Inca, caratteristico
villaggio posto a 2.700 metri di quota, siamo ospiti
di una compagnia di "cazadores" per un brevissimo
periodo di acclimatizzazione e messa a punto delle nostre
condizioni fisiche.
Il giorno 8 affrontiamo il sentiero che percorre gl'interminabili
40 chilometri della <Quebrada de los Horcones>,
vallata brulla, selvaggia e circondata da massicci imponenti,
ma con un fascino particolare e con colori che cambiano
continuamente. In due tappe, il 9 raggiungiamo il campo
base di quota 4.230, dove trascorriamo altri tre giorni
di acclimatizzazione, compiendo escursioni a quote sempre
maggiori. In questa famosa <Plaza de Mulas>, così
chiamata in onore dei bravi e generosi quadrupedi, tanto
utili per il trasporto dei pesanti bagagli. E lì,
finalmente, ci appare l'Aconcagua che, con tutta l'imponenza
dei suoi 7.000 metri, sembra palesare un atteggiamento
di sfida. Nell'ampia conca, unico luogo con segni di
vita in tanta solitudine, troviamo decine di tende variopinte,
popolate da una moltitudine di alpinisti di ogni nazionalità,
tuttti spinti dall'aspirazione di raggiungere la vetta.
Qui decidiamo la tattica di salita, ansiosi come siamo
di concludere l'ascensione perchè ormai ci sentiamo
sufficentemente preparati e soprattutto perchè
le previsioni metereologiche a breve scadenza non sono
molto favorevoli.
in marcia di allenamento
(la fotografia correda l'articolo)
|
Carichi di tutto il necessario per la sopravvivenza
alle quote maggiorri, il 13 febbraio lasciamo il campo
base e raggiungiamo il cosidetto <Nido de Condores>,
il campo alto posto a 5.400 metri su un vasto piano
innevato, costantemente battuto da forti raffiche di
vento. L'ambiente suscita in noi sensazioni indescrivibili
e siamo colti da un profondo senso di solitudine e di
sbigottimento di fronte a una natura tanto severa, che
minaccia di non perdonare che non ha raggiunto un perfetto
equilibrio psico-fisico.
Alle 4 del giorno dopo, domenica 14 febbraio, mentre
l'alba imminente fa presagire un'altra gelida serena
mattina, riprendiamo l'ascensione ancora intirizziti,
e piuttosto debilitati dal vento e dal freddo che ci
hanno tormentati per tutta la notte. La vetta dista
ancora 1.600 interminabili metri di dislivello, ma ormai
siamo alla resa dei conti. Non si torna più indietro.
Il nostro passo si fa sempre più greve e il nostro
respiro affannoso. Quando raggiungiamo <Penon Martinez>,
un inconfondibile pinnacolo a quota 6.600 dedicato all'omonimo
capitano dell'esercito argentino che vi morì,
scorgiamo l'attacco della <Canaleta de la Muerte>,
l'ultimo più impegnativo tratto dell'ascensione,
coperta da uno strato di neve. La cima è ormai
poco sopra di noi, quando all'improvviso sopraggiunge
la tormenta, che ci stordisce con il suo nevischio rabbioso
sferzato dal vento, ci penetra nelle ossa e mette a
dura prova tutta la nostra volontà e preparazione
fisica. Ma nessuno si scoraggia. Finalmente, verso le
tre del pomeriggio, insieme con gli amici andini argentini
e cileni, mettiamo piede e bandiera sulla più
alta vetta del continente americano.
il capitano Giannuzzi regge il gagliardetto
tricolore
sulla cima dell'Acconcagua,
spazzata
da una
furiosa tormenta
(la fotografia correda l'articolo) |
Il mondo è sotto di noi. Ma non c'è tempo
per le emozioni, solo per qualche fotografia e poi giù,
per un ritorno altrettanto difficile che ci vede raggiungere
il <Nido de Condores> all'imbrunire. Ormai è
fatta, anche se passare un'altra notte in tenda al campo
alto, con pessime condizioni atmosferiche e un freddo
intenso, non è certo l'ideale dopo tanta fatica.
Solo al campo base, al quale facciamo ritorno il terzo
giorno, 15 febbraio, finalmente riusciamo a rilassarci
e a scaricare quella tensione emotiva con la quale abbiamo
dovuto convivere fin dal nostro arrivo in Argentina.
Il giorno dopo, a Mendoza, iniziano i festeggiamenti.
Il comandante dell'8^ <Brigata de montagna> ci
consegna il prestigioso attestato dell'impresa andina
e il vice console d'Italia ci offre una piacevole occasione
di incontro con la comunità italiana. Un'indimenticabile
serata trascorriamo poi con i componenti del locale
gruppo A.N.A. i quali condividono con orgoglio il successo
di un'impresa che ancora una volta tiene alto il nome
dell'Italia all'estero. La più grande emozione
ci coglie alla lettura del messaggio del Presidente
delle Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Ai suoi sentimenti
di viva soddisfazione e a "un caloroso ringraziamento
ricco di ammirazione", il Presidente aggiunge :
"Tale spettacolare impresa evidenzia un significativo
impegno organizzativo, eccellente preparazione fisica,
elevato livello addestrativo, tenace volontà
di riuscire nell'intento, doti queste che rafforzano
il prestigio di cui godono gli appartenenti alle truppe
alpine in tutto il mondo".
Festeggiamenti e avventura si concludono a Buoenos Aires,
dove veniamo ricevuti dall'ambasciatore italiano e dal
capo di Stato Maggiore dell'esercito argentino.