residenti illustri nel territorio bolognese romagnolo
Il Maggiore Paolo
Caccia Dominioni
di Giuseppe Martelli
pubblicato il 15 agosto 2004
Gli
eventi dell’8 settembre 1943 determinarono uno sbandamento ed anche
drammatiche situazioni personali nelle Forze Armate Italiane. Legato
a questo particolare momento della nostra storia ritroviamo il maggiore
del Genio Alpino Paolo Caccia Dominioni, che a Bologna visse suo malgrado
un forzato “soggiorno” ma vi trovò anche l’amicizia e la solidarietà
ed una presa di coscienza che determinarono la sua scelta di entrare
nella lotta partigiana.
Il
suo libro di ricordi “Alpino alla macchia” edito nel 1977 da
Cavallotti Editori in Milano, inizia proprio da Bologna…..ed è questo
capitolo che ripropongo.
OPERAZIONE
< ALARICO> E <FUCILAMENTO >
10
settembre 1943 – Villa Arcivescovile di San Michele in Bosco sopra
Bologna.
<
Bacio il Sacro Anello a Vostra Eminenza Reverendissima >
Così
direbbe una damina incipriata del settecento, non lo sciagurato che
vedo riflesso nel vetro di una finestra aperta in questo bel salotto.
Un individuo sparuto, bruciato dal sole, grottesco nel sudicio ed
avariato vestito di qualcuno che ha la corporatura tripla, mentre
la camicia grigioverde e gli scarponi chiodati tradiscono il militare.
Orrenda poi la cravatta che gli hanno messo, a fiorami giallo limone,
rosa, verde-turchese e viola sgargiante.
Passi
nel corridoio. Entrano. Il Cardinale Giambattista Nasalli Rocca, Principe
del Sacro Romano Impero e Conte di Conegliano, Arcivescovo di Bologna,
non è cambiato nel celebre aspetto di dominatore e nel piglio energico.
Mi sembra che il giovane segretario, monsignor Angelo Dell’Acqua,
cerchi di imitarlo (penso a Galeazzo Ciano quando si sforzava di fabbricarsi
le attitudini, la voce e la mascella del suocero). Tranquillo e dimesso
il terzo personaggio, un anziano e grasso prelato.
Mi
scuso della mie condizioni.
<
Perbacco, come ha fatto a ridursi così? Per poco non la riconoscevo
>
La
guerra. E poi, ieri all’alba, nella stazione di Bologna la mia tradotta
ha fatto le fucilate con i tedeschi ed ho avuto la peggio. Sono evaso
mentre mi deportavano in Germania, ed ora chiedo asilo, sia pure per
poche ore, a Vostra Eminenza Reverendissima.
<
Si consideri a casa sua, per il tempo che vuole. La settimana scorsa
ero a Roma, ospite del Cardinale suo cugino, e ho chiesto di lei.
Mi ha detto che non era ancora ben guarito dalle avarie africane,
ma che già comandava un battaglione d’alpini in montagna. Ha fatto
bene a venire qui. Nessuno di noi tre ha ancora parlato con una vittima
diretta dei fatti attuali, e vorremmo il racconto particolareggiato,
anche se penoso, di quanto le è avvenuto >
La
Sua accoglienza mi commuove. Ma non vorrei, Eminenza, esser prolisso.
L’interesse dell’uditorio esula dalla tradizionale riserva dell’alto
clero.
La
sera del 7 stavo uscendo da Asiago, in marcia notturna con parte del
battaglione, quando mi raggiunge l’ordine di partir subito per Banne,
presso Trieste, e presentarmi al comando di reggimento. Mi arrampico
dietro il mio motociclista (un altro milanese, vecchio d’Africa e
medaglia d’argento sul campo, Chiodini), invertiamo la marcia e prendiamo
la strada di Gallio, pessima (però sfiora un posto dove mi fermo sempre,
e conosco bene fin da quando vi morì mio fratello Cino, sottotenente
degli alpini nel ‘18). Una notte sballottata di 250 chilometri, tra
allarmi aerei, forature e passaggi a livello chiusi per ore anche
ai veicoli con meno di quattro ruote. Arriviamo verso le 8 di mattina:
il colonnello (uno nuovo che non conosco) è già in caserma. Vengo
annunciato subito: mi riceve dopo due ore. < Notizie del battaglione
>, dice. Gli “do la forza”: 1154 tra ufficiali e truppa; armamento,oltre
quello individuale, 192 mitraglie, lanciafiamme e mortai d’assalto,
più 18 mila bombe a mano tedesche e il parco esplosivi. Purtroppo
non riusciamo ancora ad avere i 4 cannoni anticarro e i 4 mortai pesanti.
Risponde: < E’ per questo che vi ho chiamato. Dite dello spirito
del Battaglione. > Rispondo che il destino di un reparto del nostro
metallo, tenuto in serbo per l’estrema prova in una situazione disperata,
non offre che tre alternative: ospedale, prigionia o le scarpe al
sole; e lo sappiamo. Quindi: fare la pace in sé, allegramente, lavorare
forte, cantare, prendere la sbornia, e il resto. Vostra Eminenza mi
perdoni. Il colonnello non fa commenti (vedo dai nastrini che è un
uomo di guerra, anche se tanto rustico) e conclude: < Vi spedisco
a Roma con un ufficiale mio perché vi diano subito cannoni e mortai.
Prenderete un treno de pomeriggio e stasera, a Mestre, la tradotta
del sud. Potete accomodarvi. Buongiorno. >
Passo
il resto della mattinata al comando per regolare diverse faccende.
Apprendo, da un’indiscrezione, che sono stato promosso tenente colonnello
e che ci sarò nel primo bollettino; ma, soprattutto, ottengo diecimila
sigarette per il battaglione, che non ne ha. Chiodini le carica un
po’ sul secondo sedile, al mio posto, un po’ davanti, fa il pieno
di benzina, e riparte (instancabile nonostante la pallottola che gli
ha bucato la pancia) per Asiago. Dedico le ore pomeridiane ad amici
triestini e finalmente vado alla stazione, proprio quando esplode
la notizia dell’armistizio. Il tripudio, per le strade, è scatenato
e folle, non un viso preoccupato per quello che indubbiamente faranno
i crucchi. Telefono in caserma, parlo con il superiore: non sarebbe
il caso che torni ad Asiago? < Eseguite l’ordine di stamane >
viene risposto. In treno c’è un vecchio guerriero, colonnello dei
granatieri, anch’egli richiamato, tormentatissimo per l’incosciente
baraonda che appare in ogni stazione e nelle campagne.
A
Mestre salgo in tradotta: nel mio scompartimento ci sono tre colonnelli
con le stellette listate di rosso, comandanti di reggimento. Arriviamo
a Bologna alle 2 di notte, e non ripartiamo. Io, stanchissimo per
le ore in motocicletta e la giornata triestina, dormo pesantemente.
Alle 4, forse un po’ dopo, un trambusto mi sveglia intontito. I crucchi
sono venuti a disarmarci, ma sento urlare: < No! L’ordine di Badoglio
alla radio è stato di rispondere con le armi a qualsiasi attacco.
> E’ un anziano richiamato, capitano dei bersaglieri, di quelli
vecchi del Carso. Riunisce i pochissimi armati della tradotta, una
quindicina su trecento, cattura quattro tedeschi. I miei tre colonnelli
sono come inchiodati. Balzo presso il capitano, sono con lui; e se
facessimo uscire il treno in campagna, magari minacciando il macchinista
con la pistola? E’ d’accordo. Corro verso il locomotore con il tenente
Comel, un bravo ingegnere triestino che mi accompagna. I nostri aprono
il fuoco. Cadono tedeschi tra i binari e sul marciapiede.
I
prelati tacciono, ma i loro occhi scintillano, e sono frementi. Dopo
tutto sono italiani anche loro.
Purtroppo
il locomotore è già staccato. Non possiamo riunirci ai nostri: un
gruppo di crucchi ci ha tagliati fuori. Filiamo curvi nello stretto
spazio fra altri due treni, vuoti. Sentiamo sferragliare carri armati
Tigre, di quelli nuovi, 30 tonnellate, cannone lungo da 88. Sparano
a bruciapelo sulla tradotta, un macello. Attorno a noi è il noto sibilante
fruscio di pallottole e schegge. Cerchiamo di svignarcela nel sottopassaggio,
ma in fondo, dove c’è la scala con il cartello “al piazzale”, diversi
tedeschi che stavano appiattati dietro l’angolo ci piombano addosso
prima che si possa usare la pistola e ci immobilizzano. Poco dopo
l’intera tradotta, solo parzialmente ribelle, disarmata, è fatta coricare
a terra nel piazzale, tra sei mitragliatrici puntate. Ogni tanto un
tenente tedesco ci arringa: la nostra probabile sorte è “FUCILAMENTO”.
Ripete la parola con voluttà.
Dopo
sei ore bestiali ci incolonnano e traversiamo tutta Bologna, scortati
da crucchi a bajonetta in canna: una vergogna inumana, angosciosa,
tra la folla sbigottita. Una ragazzina sui 15 anni spinge la bicicletta
camminando parallelamente a me, mi guarda e piange: sono il solo alpino.
Le dico: coraggio, puoi star sicura che non finisce così. Mi ringrazia.
Mi si affianca un borghese, elegante, energico, due medaglie d’argento
all’occhiello: < sono armato, > mormora, < facciamo qualche
cosa? > Gli dico che ci massacrerebbero tutti e che invece potremo
agire dopo esserci organizzati. Un tedesco ride di un ufficiale che
fatica a trasportare la sua cassetta, è ferito o ammalato: dico al
tedesco, nella sua lingua, che dovrebbe vergognarsi, e aiutarlo. Il
tedesco ha un gesto di violenta protesta, ma ferma un triciclo a furgone,
vi fa caricare la cassetta e poi mi dice: ecco fatto. Percorriamo
viale Panzacchi, ci chiudono nella caserma del 3° artiglieria. Credo
vi sia concentrata tutta la guarnigione di Bologna, più tutte le tradotte
bloccate in stazione, più i militari rastrellati qua e là: a occhio
e croce, diecimila uomini. Gli ufficiali si affollano nella villetta
del Circolo. Una confusione da non dirsi, e poco edificante. Noto
in disparte, dignitoso, un gruppetto di cavalleggeri di Saluzzo. Vedo
i tre colonnelli miei compagni di scompartimento, accasciati, fors’anche
per non aver affatto reagito ai tedeschi. Mi sento chiamare: sono
tre paracadutisti della “Folgore” e un loro caporale che avevano fatto
scintille nel brevissimo scontro dell’alba e mi cercavano per organizzare
la fuga. Ne manca uno, e manca anche il vecchio capitano bersagliere:
speriamo siano vivi. Ma posso chiedere a Vostra Eminenza che notizie
ci sono? E’ possibile che nessuno resista?
<
A Bologna la guarnigione si è arresa e fatta disarmare senza reagire:
il vostro caso, che abbiamo saputo subito, è anche isolato. Pare si
combatta a Roma, Milano, a Reggio, nel Trentino. Torino avrebbe seguito
l’esempio di Bologna. Ma continui, la prego, il racconto. >
Per
oltre un’ora abbiamo continuati i tentativi di fuga: dal muro di cinta,
dalla fognatura che ha uno sbocco all’aperto: ovunque tedeschi con
mitragliatrici puntate. Ci siamo seduti in un angolo poco affollato,
per chiacchierare. < Ma pensi signor maggiore > dice il caporale,
un bresciano che si chiama Bettoni, < pensi a quando arrivavamo
feriti a Marsa Matruh, alla Busetta di Tripoli, sulla nave ospedale
“Gradisca” (dove c’era anche lei, lo ricordiamo bene) e si diceva
che eravamo della “Folgore”. Tutti si facevano in quattro, colonnelli
medici e soldati infermieri, suore e crocerossine. E adesso guardi
che vergogna, che umiliazione, che rovina >. Forse è bene che vada
a vedere che cosa succede alla palazzina degli ufficiali. E’ vuota.
Li hanno portati via tutti, al vicino Stabilimento Pirotecnico. Un
tedesco mi dice che ora stanno rastrellando i pochi che sono rimasti
in caserma, e poi ci scorteranno allo stesso edificio, in attesa di
riportarci alla stazione. E poi? Poi, non sa, ma pensa che finiremo
tutti in Germania. La mia angoscia aumenta: unico punto positivo,
la certezza che nessuno ha preso nota dei ribelli che hanno sparato
per primi, di noi che abbiamo cercato di reagire a tanto disonore.
Mi
fermo per prender fiato.Portano l’aperitivo. Ottima cosa.
Hanno
trovato altri sei ufficiali, ci fanno uscire sul viale, in linea di
fronte: dietro noi camminano due tedeschi armati di mitragliatore.
Il viale non è deserto. Sono il primo a sinistra verso la corsia centrale,
lungo la linea degli alberi. Mi rovo a fianco due borghesi che fingono
parlare tra loro, ma si rivolgono a me, voltando la testa dalla parte
opposta. Uno è molto alto, di aspetto operaio, faccia energica e barba
non rasa. < Scappi, signor maggiore, lo nascondiamo noi mettendoci
davanti al tedesco; giù il cappello alpino, la penna bianca si vede
troppo. Al via parta a tutta velocità, traversi, salti nella strada
a sinistra e dopo cinquanta metri, sulla curva, si butti nel giardino
a sinistra, scavalcando la rete metallica; troverà aiuto nella villa.
> Perché no, penso, e mi chiedo dove mi raggiungerà la raffica:
schiena? nuca? Purché facciamo presto: sarebbe la più elegante uscita
da questo tormento. Al segnale, eseguisco. La raffica non arriva:
forse il tedesco guardava qualche bella ragazza. Mi cade la cartella
di cuoio, mio unico bagaglio per il viaggio di un giorno, le cose
personali e i documenti. La rete è alta: butto al di là cappello e
impermeabile, mi arrampico, una capovolta con salto mortale e giù
nella siepe, appiattendomi dietro il muretto basso. Sento arrivare
in volo la cartella: i miei salvatori sono degli eroi. Subito dopo,
pesanti, passano di corsa gli scarponi chiodati del tedesco distratto:
mi sfiorano a soli quaranta centimetri, lo spessore del muretto. Ma
rimango appiattato, temendo un ritorno. Dopo venti minuti, guardingo,
mi assicuro che nessuno dalla strada possa vedermi e striscio verso
la casa. Gradini e ripiano dànno sul giardino, come si conviene: la
porta è socchiusa, anche se tutte le persiane sono sbarrate. Entro.
Vengo affabilmente accolto da una coppia di ottantenni, che già ospitano
tre giovani ufficiali in fuga. La signora è molto commossa, e ripete:
le vostre mamme, le vostre mamme. Il marito si chiama Cleto Capri,
architetto e professore, un uomo della mia statura, ma incredibilmente
grasso, sui centoventi chili (più del doppio dei miei cinquantotto).
Entriamo in sala, e subito la mia attenzione è attratta da diversi
quadri, e specialmente da tre piccoli paesaggi di tipica scuola ottocentesca
veneta. < Ma questi li ho visti alla biennale di Venezia nel 1924!
> esclamo, < maniera di Ciardi e Favretto, di Zandomeneghi e
Fragiacomo. > L’ottantenne autore mi abbraccia: è proprio lui.
Entusiasta di ospitare un collega e soprattutto, dice, un intenditore.
Pasto e progetti, piano d’azione. Uno dei tre giovani è figlio di
un capostazione in servizio sulla linea adriatica: ha già preso contatto
con la stazione e fra poco arriveranno indumenti e copricapo ferroviari,
unti e bisunti, con i necessari documenti per ciascuno.
Il
monsignore grasso, per la prima volta, fa udire la sua voce: <
Conosco l’architetto, ottima persona e buon cristiano >. Mi scuso
con Sua Eminenza di perdermi in tante quisquiglie, ma il cardinale
insiste. Un cameriere annunzia il pasto: ci spostiamo a tavola, dove
ci servono una colazione molto semplice, ma – a questi chiari di luna
– assolutamente inattesa. Riprendo dopo il caffè: forse il cardinale
preferiva che la servitù non ascoltasse, e intanto si parla della
mia ultima sorella che nel ’38, sposatasi, divenne nipote di Sua Eminenza;
nell’occasione egli fu mio ospite a Nervino, con il cardinale Camillo
Caccia Dominioni suo grande amico e nostro cugino.
Disegno
dell’autore dedicato ai
pantaloni del professore.
|
Nel
pomeriggio il figlio del capostazione, essendo arrivato il pacco,
si veste da fuochista ferroviario ed esce. Rientra più tardi, con
le notizie. Calma generale, poche pattuglie tedesche che per ora non
perquisiscono le abitazioni. Dalla stazione partono uno dietro l’altro
lunghissimi convogli di carri chiusi, uomini 4° (ma quasi sempre 50
o 60 che non hanno neppure lo spazio per stare ritti) e cavalli 8,
sulla linea di Verona, e questo significa Brennero e campi di concentramento
in Germania. Pochi partono per Padova (e si pensa subito alla Polonia).
I carri sono sempre piombati. Qualche ufficiale o graduato della soppressa
milizia si è subito messo a disposizione dei tedeschi, e per lui tutto
va bene. Il pittore architetto mi presterà un suo vestito; domattina
usciremo assieme per un giretto in città, e mi farà vedere le sue
opere. Gli ho detto che conosco Vostra Eminenza Reverendissima, ne
è stato felice e mi ha consigliato di chiederLe asilo. Ho passato
la notte a meditare e a cucire quattro enormi pieghe nella cintura
dei pantaloni che porto, diminuendo di mezzo metro la circonferenza,
ma non basta ancora: niente paura, rimedierà la mia cinghia. Stamane
mi sembrava di avvolgermi in un drappeggio di tendoni: e la cravatta
è cosa spaventosa, ma non ho osato fiatare.
Il
racconto, giunti a questo punto, potrebbe essere finito; e ho il dubbio
di avere ecceduto in particolari senza interesse. Ma il cardinale
insiste.
Il
giro architettonico, molto minuzioso, è durato più di due ore, e finalmente
siamo giunti all’Arcivescovado, dove l’accoglienza, nonostante il
concorso del prestigioso artista, mancava un po’ di calore: devono
avermi preso per l’evaso da una clinica psichiatrica. Ma saputo dove
trovare Vostra Eminenza mi sono fatto portare sulla buona strada dall’ottimo
Capri. Alla prima occasione, manderò a recuperare il cappello, l’uniforme
e la cartella sfuggita all’attenzione del nemico detentore. Prima
di arrivare quassù ho sbagliato più volte la strada, ma senza cattivi
incontri.
Il
cardinale e il monsignore anziano si ritirano: resta ancora un po’
il segretario, a chiacchierare del più e del meno. A rassicurare i
miei, con un telegramma a Nerviano, ha già provveduto il professore.
Monsignor Dell’Acqua è acuto e piacevole: mi aiuterà a risolvere il
difficile caso. Mi assilla il triplice pensiero della famiglia, a
Nerviano e a Roma, e del battaglione rimasto sull’altipiano.
10
settembre, sera
Ho
una bella camera in stile impero invece dei centocinquanta centimetri
quadri del vagone piombato. Enorme immeritata fortuna, per ora. Non
ho voglia di dormire. Cerco qualcosa da leggere per distrarmi. La
stanza vicina è la biblioteca: i muri sono tappezzati di volumi rilegati
in cuoio bruno, quattro o cinquemila libri tutti di teologia, filosofia
e dogmatica; annate, decenni di riviste religiose rilegate, “La Civiltà
Cattolica”, “Annali Missionari” ed altri. A me, in quel settore, basterebbe
il minuscolo messale, ricordo di mio Padre; ma è rimasto ad Asiago.
Lo riavrò un giorno? Non riesco a equilibrare le idee. E potrò recuperare
il cappello alpino, con l’ala slabbrata da una scheggia che svolazzava
l’anno scorso nell’aria di Alamein, ad altezza d’uomo?
Intanto,
sempre in biblioteca, ho finalmente trovato un libro che un tempo
mi sembrava mortalmente noioso, e ora, fin dalle prime righe, mi dà
un senso di ariosa spensieratezza; le “Memorie” di Massimo d’Azeglio.
Il caso mi fa aprire la pagina dove il marchese padre dice al figlio
adolescente nominato alfiere di cavalleria: < Ricordati che l’onore
del soldato sta sullo stesso piano dell’onore del primo generale e
anche del Re. >
Penso
ai tre colonnelli. Non ho voglia di leggere. Non ho voglia di affogare
nel sono la mia stanchezza. Mi chiedo se un ciclone cosmico basterebbe
per ripulire l’Italia che sta affogando nella merda.
Ma
continua la catena degli imprevisti fortunati. Ho saputo che contiguo
alla chiesa di San Michele e alla villa c’è l’antico chiostro, oggi
padiglione distaccato del grande complesso ospedaliero Putti o Rizzoli
di Bologna. E salvo errori al Putti è ricoverato da mesi, per sei
gravi ferite riportate in Russia, un altro guastatore alpino, forse
il più audace e intrepido, il capitano Manlio Maria Morelli, amico
carissimo. Chissà che non sia vicino, e prego monsignor segretario
di informarsi. Dieci minuti dopo Morelli è qui: siamo senza parole
e ci abbracciamo. E da uomo pratico, dice che sono due le cos urgenti
da fare. Vestirmi da cristiano, e provvederà in mattinata; e parlare
di me al professor Scaglietti, direttore del Putti, di fama internazionale,
oggi colonnello, per far valere la leggera ferita dell’anno scorso
al viso, e proprio nella branca sinistra del trigemino.
11 settembre
Scaglietti
mi ha visitato, ricoverato all’ospedale, e dimesso con sei mesi di
convalescenza per postumi di ferita. Morelli mi ha vestito elegantemente
e mi ha dato una cravatta di colore unito. Dopo questo è arrivato
a Scaglietti l’avviso che gli sarà affiancato un medico militare tedesco.
Tutti provvedimenti in corso sono sospesi in attesa di costui, annunziato
per domani.
Mentre
ero in corsia, ho sentito voci tedesche, e ho visto una sala dove
giacevano una decina di feriti, curati da una suora della Pigrizia,
l’Ordine veronese che da un secolo ha provvidenzialmente alimentato
gli ospedali del levante, specialmente in Egitto. La suora è di mezza
età, e certamente è stata laggiù. Le chiedo se parli arabo: dice di
si. Le chiedo allora, in arabo, da dove venga questa gente. < Men
el mahatma >, risponde, dalla stazione. Li hanno portati ieri l’altro
mattina presto; e soggiunge che erano tutti “sahkranin”, ubriachi.
12
settembre
Ho
pensato che la fortuna mi lasciasse. Il medico tedesco ha la faccia
del perfetto idiota, è intimidito dalla presenza di Scaglietti, ma
è una sudicia carogna. Tre ufficiali che mi precedono vengono riconosciuti,
e faranno la loro convalescenza, ma in Germania, internati, finchè
potranno riprendere servizio con le nuove forze del ricostituito esercito
italiano.Poi c’è un fante amputato, visibilmente, a metà tibia: e
lo fa spogliare per essere sicuro: Scaglietti gli dice il fatto suo,
in buon tedesco, e quello incassa. Poi è il mio turno. Scaglietti
spiega; scoppio, scheggia nel gaglio di Gasser, nevralgie intollerabili,
probabile prossimo intervento. Il foglio di licenza è già completo.
Il tedesco appone il timbro con l’aquila, che tutti chiamano “pollastro”,
della Wehrmacht, e scrive: genehmigt – Dr. Koester, Oberarzt.
Scaglietti:
< Ora che c’è il pollastro lei è in una botte di ferro. >
Si
tratta ora di raggiungere Milano.
13
settembre
Gli
addii al Cardinale, ai due monsignori e al personale della villa sono
stati cordialissimi. Sembrava chiudessero un anno di soggiorno. Morelli,
che ormai può dirsi guarito, mi ha accompagnato al treno. La città
è in gran disagio pur avendo apparentemente ripreso la vita normale.
In casa Capri ho fatto una riconoscente visita di congedo, riportando
vestito e cravatta; ma per prudenza, dovendo rischiare probabilmente
più di una perquisizione, uniforme e cappello alpino vengono ritirati
da Morelli, tuttora ricoverato.
Alla
stazione abbondano, facili a distinguersi, i militari travestiti.
Non ho voglia di cercare i segni del nostro combattimento, proprio
al marciapiede 6 dove è in arrivo, da Firenze, il mio treno. Entro
dal finestrino (discreta impresa per un convalescente, dal
basso della massicciata di pietrame, perché siamo oltre il marciapiede),
mi metto a posto e sempre dal finestrino introduco due bambini che
dispongo ad occupare il posto delle rispettive madri. La baraonda
è infernale. Dopo mezz’ora il treno è circondato da soldati tedeschi
che fanno scendere tutti gli uomini, di qualunque età, per la verifica
dei documenti. Forte del mio pollastro, del mio grado e parlando tedesco
mi metto in autorità, fino a irritarli: fanno scendere anche me, mi
perquisiscono e mi portano dal loro maggiore, comandante di stazione.
Compio un atto che mi ripugna, e gli metto sotto il naso il brevetto
della croce di ferro avuta da Rommel. Soltanto così riesco a tornare
al treno, assieme a un nostro soldato ammalato che non si regge in
piedi. Le vetture, prima stracariche, ora sono quasi vuote, occupate
specialmente da donne e bambini. Ma si riempiono successivamente,
di stazione in stazione…
….Grazie
a Iddio si prosegue oltre il Po, e dopo mezzanotte arriviamo a Milano………
ma
chi era il conte Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo?
Era
nato a Nerviano (Milano) nel 1896. Il 24 maggio 1915, studente di
ingegneria, abbandona gli studi per arruolarsi volontario all’annuncio
della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria. Dopo cinque
mesi entra all’Accademia Militare di Artiglieria e Genio di Torino
ed al termine del corso allievi ufficiali viene assegnato al reggimento
Genio Pontieri partecipando a tutti i combattimenti sull’Isonzo. Promosso
Tenente nel 1917, guadagna la prima medaglia di bronzo al valor militare.
Transita poi, su sua richiesta, ad una nuova specialità del Genio,
i “lanciafiamme” ed opera sul fronte del Carso. Al termine della guerra,
completati gli studi di ingegnere architetto, viene richiamato ed
assegnato al Regio Corpo Truppe Coloniali della Tripolitania e raggiunge
la Libia rimanendovi per due anni. Richiamato nel 1931, viene mandato
nel Fezzan per eseguire una serie di rilievi cartografici percorrendo
nel deserto a dorso di cammello, un migliaio di chilometri. L’anno
successivo viene posto nuovamente in congedo. Nel settembre 1935,
nuovamente richiamato con il grado di Capitano, è in Sudan in qualità
di “agente segreto”, poi ad Asmara nel servizio informazioni del Comando
Superiore, quindi nel 1936 è posto al comando della “pattuglia astrale”
costituita da Ascari interpreti di tutti i dialetti locali e posta
alla testa delle colonne in avanzata. All’inizio del 1937 rientra
in Italia, con nuove decorazioni al valor militare, ed è posto in
congedo. Nel 1939 è ad Ankara, impegnato nella costruzione della nostra
ambasciata e qui lo raggiunge il quarto richiamo. Con l’entrata in
guerra dell’Italia nel giugno 1940 dopo ripetute specifiche richieste,
viene assegnato al XXX battaglione Guastatori del Genio Alpino. Frequenta
quindi il corso di specializzazione al termine del quale, con il grado
di Maggiore, gli viene affidato il comando del XXXI battaglione Guastatori
del Genio. Inviato nuovamente in Africa sul fronte di Tobruk, qui,
nel giugno 1942 al comando dei suoi Guastatori, partecipa a numerose
rischiose azioni per le quali riceve dal Comandante Gen. Rommel la
croce di ferro tedesca “sul campo”.
il
Sacrario di El Alamein
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Successivamente
il battaglione passa alle dipendenze della Brigata Paracadutisti Folgore
e partecipa dal 24 ottobre al 5 novembre alla drammatica battaglia
difensiva di El Alamein nel corso della quale Caccia Dominioni rimane
ferito. Rimpatriato, pone tutte le sue energie per far approvare la
costituzione di un nuovo reparto della specialità Guastatori del Genio
Alpino, che viene formato con i veterani del XXX e XXXI battaglione
il 23 aprile 1943 a Banne (Trieste), quindi dal 1° agosto completato
l’organico è trasferito nella nuova sede ad Asiago. Coinvolto a Bologna
dall’armistizio dell’8 settembre 1943, riesce a rientrare in Lombardia
dove fino al 25 aprile 1945 partecipa in modo significativo alla lotta
partigiana meritando la medaglia di bronzo al valor militare.
Nel
1948 ritorna volontariamente con pochi fidati in Africa ad El Alamein
per una missione unica: la ricerca delle salme dei caduti di ogni
nazione disperse fra le sabbie del deserto egiziano, ricomporle in
un Mausoleo da lui stesso progettato, realizzato e per anni custodito.
Grazie alla sua opera 4814 caduti riposano e sono onorati nel Sacrario
Militare Italiano di El Alamein inaugurato nel gennaio 1959.
Alcune
delle opere di Paolo Caccia Dominioni. Le prime due immagini riproducono
la copertina di sui libri, la terza, il suo disegno in copertina
del libro edito a cura del Comitato per la storia del Genio Alpino,
l’ultima è una sua cartolina dedicata al periodo “africano” del
31° Guastatori.
Autore
di numerosi ed apprezzati libri storici, disegni, tavole, illustrazioni,
progettista di Sacrari Militari e gruppi monumentali in quattro diversi
Continenti, il Colonnello del Genio Alpino Paolo Caccia Dominioni
di Sillavengo muore a Roma il 12 agosto 1992. In occasione della visita
al Sacrario di El Alamein del Presidente Carlo Azeglio Ciampi avvenuto
il 20 ottobre 2002, gli viene conferita la Medaglia d’Oro al Valore
dell’Esercito “alla memoria”.
Note: la segnalazione
di questo interessante capitolo, legato alla storia del territorio
bolognese romagnolo, e la proposta di riportarlo nel sito è pervenuta
da Mario Gallotta del Gruppo Alpini di Ferrara.
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