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Giuseppe Martelli
dedicato
agli alpini in armi e in congedo
I NOSTRI SOLDATI
ALPINI
di Giuseppe Domenico Perrucchetti*
trasritto dall'articolo originale da Giuseppe Martelli
pubblicato il 1° dicembre 2010
Pubblicato
su una rivista nel luglio del 1915, è stato rintracciato questo
articolo dedicato a: i nostri soldati alpini.
L'Italia, da circa due mesi, esattamente dal 24 maggio 1915, è
entrata in guerra contro l'Austria. E' quindi un periodo di grande
fervore patriottico e molte riviste pubblicano articoli dedicati ai
nostri soldati, ai vari Corpi del nostro Esercito e alla loro storia.
Fra i vari articoli pubblicati appare questo, certamente molto interessante,
perchè redatto in persona dal Generale Giuseppe Domenico Perrucchetti
che è stato l'ideatore del Corpo degli Alpini e per questo
chiamato famigliarmente il Papà degli Alpini.
Un documento che sicuramente aggiunge qualcosa di nuovo alla nostra
storia, non tanto dal punto di vista storico, ma rileggendo gli esempi,
i ragionamenti e le considerazioni che lo hanno portato a formulare
nel 1872 la proposta di istituire un nuovo Corpo Militare, o meglio
di istituire nuovamente un Corpo Militare già presente sul
territorio fin dai tempi dell'impero romano, abbiamo certamente una
visione più "diretta" attraverso il pensiero
del nostro "ideatore" sui "perchè".
Se pensiamo poi che l'anno successivo (5 ottobre 1916) è deceduto,
questa sua ultima diretta testimonianza diventa certamente ancora
più interessante proprio perchè nessun altro meglio
del nostro Papà conosceva le nostre origini ed il
perchè.
Così inizia l'articolo di Perrucchetti. Nel testo riprodotto
qui sotto, sono inserite
anche le immagini che corredano l'articolo in originale pubblicato
nel luglio 1915. |
Or
fanno quarantre anni, quando Re Vittorio Emanuele II decretò
che i difensori nati nelle Alpi fossero ordinati a difesa delle
porte d'Italia, un nuovo e vivissimo senso di sicura fiducia e di
legittimo orgoglio elevò la coscienza della Nazione.
Lo ispiravano gli eroici ricordi delle prove di ardimento, di abnegazione,
di resistenza ad ogni costo, che, nelle lotte per l'indipendenza
e per la libertà, avevano resi gloriosi gli antenati dei
nuovi Soldati Alpini.
Dalle
Alpi marittime, alle Valli Valdesi, alla Valle d'Aosta, alla Valtellina,
alla Valle Camonica, all'Altopiano dei Sette Comuni, alle Gole del
Cadore e della Carnia, alla rupe di Osoppo, stanno, impressi a caratteri
di sangue, i ricordi di gesta leggendarie, specchio parlante ai
novelli difensori delle Alpi. Il nostro soldato alpino, erede di
quelle glorie, sente la discendenza da una gente forte, sobria,
tenace, la quale, da remotissimi tempi, ha sempre lottato, con saldezza
granitica, contro infinite fiumane di Barbari, e contro non pochi
eserciti regolari, forti per numero, per ordinamenti e per tradizioni.
Il fascino di questi ricordi eleva i cuori, stabilisce un impegno
d'onore, ripete al montanaro, allenato ai maggiori cimenti nella
giornaliera lotta per l'esistenza, innamorato del luogo natio,
che: noblesse oblige. (1)
A tanto obbligo, risposero e rispondono, in modo degno degli avi,
in ogni scontro, i nostri soldati alpini nell'Eritrea, nella Tripolitiania,
nella Cirenaica, a Rodi ed oggi, dallo Stelvio all'Isonzo, nella
rivendicazione delle nostre terre irredente.
Va qui ricordato che i fieri abitatori delle nostre montagne non
piegarono, per secoli, neppure alla disciplinata onnipotenza di
Roma. Questa, vittoriosa già nelle Gallie, nella Germania
e nel Norico (2), dovette per molti anni preferire
di amicarseli piuttosto che soggiogarli; e, solo dopo avere raggiunta
una straordinaria altezza, pervenne a domarli con terribile strage,
ai tempi di Druso.
A tanta tenacia, diventata natura, dobbiamo se tutta la nostra popolazione
alpina, temprata, anche in pace, ai più ardui cimenti, ha
conservato intatta, così nel morale come nel fisico, l'antica
fisionomia e la comunanza di sentimenti e di linguaggio. Con tali
precedenti di origine i nuovi soldati alpini non potevano che confermare
le previsioni dei primi giorni. Con inflessibilità e con
eroismo degni degli avi, da quarantadue anni essi danno in pace
ed in guerra prove che destano l'ammirazione del mondo.
Aosta - Il monumento a Vittorio
Emanuele II |
Se
in altri luoghi ed in tutti i tempi, il comun fato svelse le iscrizioni
e gli obelischi e gli archi, nella bella cerchia, che provvida natura
"pose fra noi e la tedesca rabbia", rimasero "monumenti
d'eroi pur sempre vivi, le montagne della terra nata!".
Però se, in ogni valle, gli alpigiani del luogo ricordano e
tramandano religiosamente le gesta locali, non molti fra essi conoscono
quelli della valle vicina, e, fuori dalle Alpi poi, ben pochi italiani
hanno conoscenza e coscienza di quelle glorie e delle nostrane attitudini
e precludere il passo ad ogni prepotenza straniera.
Questa conoscenza è indispensabile, per giustamente apprezzare
la missione delle truppe alpine, per indovinarne il valore, garantito
dai gloriosi ricordi scritti dai nostri padri, col sangue, su le balzi
delle Alpi, e per avere coscienza della nostra forza. Lassù
vorrei poter condurre i giovani a leggerle; poichè, solo colla
vista dei luoghi, eloquenti testimoni delle gesta, è possibile
apprezzare degnamente l'immenso patrimonio di tradizioni gloriose
che, a buon diritto, rendono il nostro montanaro fiero del suo passato,
fidente nell'avvenire, sicuro nel geloso compito di guardiano delle
porte d'Italia.
Dalla Liguria all'estremo Friuli le tradizioni locali additano all'alpigiano
in ogni forra (3), in ogni valico, un ricordo di
epiche lotte, nelle quali gli avi, senza altri armi talora che il
personale valore e le petre dei natii dirupi, pugnarono in massa,
uomini e donne, vecchi e fanciulli; tetragoni agli orrori della guerra,
spesso condotte dallo straniero con ferocia spietata, nel vano e selvaggio
proposito di fiaccare coi saccheggi, cogli incendi, colle esecuzioni
in massa, insomma, con ogni più inumano accesso, la coscienza
di un popolo incrollabile nel sentimento della indipendenza.
Questa storia, caratteresticamente e terribilmente alpina, purtroppo
ignorata anche da moltissimi fra gli italiani di una certa cultura,
meriterebbe di essere profondamente studiata; epperò non credo
superfluo, per interessarvi tutti i futuri liberatori delle Alpi e
gli Italiani in genere, ricordare qui almeno per sommi capi due esempi
di quanto, in tempi diversi, in diverse regioni, hanno operato due
delle nostre valorose popolazioni alpine, Valdesi e Cadorini.
Nelle vallate, fra il Monviso ed il Tabor, brilla da secoli glorioso
il nome dei Valdesi, discesi da antichissime genti, affermatesi fieramente
fra le Alpi da epoche immemorabili, fino ai tempi di Augusto. I nomi
di quelle genti, ricordati, con quello del Re Cozio, nell'arco trionfale
di Susa, furono con presaga sapienza inscritti dai Romani anche sul
Termine monumentale che, alla Turbia, segnava il finis
Italie. (4)
I nostri Valdesi ne raccolsero e serbarono il retaggio, colla loro
fierezza tradizionale. Costanti nella religione, serbata colla evangelica
semplicità dei primi tempi cristiani, fedeli, nelle maggiori
sventure, ai loro legittimi Princìpi, essi furono irremovibili
ogni volta che la Chiesa di Roma o gli stessi Princìpi, da
quella incitati, minacciarono la libertà della loro coscienza.
Trassero le ispirazioni della concordia dalla loro unione patriarcale
in una Chiesa, la quale precorse di secoli la riforma germanica, e
destò, persino nei tempi di minor tolleranza, l'ammirazione
degli stessi avversari. Il cattolico Claudio di Seyssel, arcivescovo
di Torino, infatti ebbe a scrivere di essi: "mettono da parte
le loro oppinioni, che sono contrarie alla fede, i Valdesi menano,
quanto al resto, per la maggior parte una vita più pura di
quella degli altri Cristiani".
Fino dal XII secolo i Valdesi resistettero con eroica costanza alla
Chiesa di Roma ed al Tribunale della Santa Inquisizione, furente contro
questi eretici delle Alpi. Circondati improvvisamente
da numerose truppe a Pregelato, mentre erano congregati a festeggiare
il Natale, anzichè sottomettersi si rifugiarono in massa, perdendo
fra i rigori dell'inverno gran parte dei loro bambini, sulla più
aspra e nevosa fra le vicine montagne, che da quel giorno, diventata
loro albergo, prese il nome di Abergian.
Nel XV secolo, sospinti d'ogni parte da una vera crociata, promossa
dal Papa (il quale, nel 1477, proclamava l'esterminio dei Valdesi
come santo è necessario, ed invitava vescovi, arcivescovi
e vicari ad obbedire all'inquisitore, ed i popoli a prendere le armi)
resistettero a ripetuti attacchi per parecchi anni. Nel 1487, soverchiati
nella pianura dalle bande di un Legato Pontificio, attirarono queste
fra le loro termopili della Valle di Angrogna, e le sterminarono.
Quasi senza armi lottarono, nell'inverno dal 2 novembre 1560 al 18
aprile 1561, contro le truppe di Emanuele Filiberto, comandate di
uno dei più energici uomini di guerra, il Conte della Trinità;
il quale aveva sfidato le maggiori difficoltà, portando in
linea, fra alte montagne, fino a dieci mila uomini. Non domi dalle
stragi e dagli incendi, (con i quali l'avversario traeva vendetta
sulle indifese borgate) sdegnosi di ogni transazione anche nei momenti
più duri, indussero colla loro fermezza il Duca di Savoia a
riconoscere, dopo sei mesi di lotta, l'equità delle loro aspirazioni.
Aosta - Arco di Cesare Augusto |
Riconcigliati
col Duca di Savoia, rinnovarono con fedeltà, in sua difesa,
gli antichi prodigi di valore. Quando nel 1627 egli si preparava ad
opporsi a Luigi XIII, i Valdesi accorsero in massa a guardia della
frontiera, attaccando furiosamente e ricacciando oltre i monti la
colonna francese, scesa per l'Agnello in Val Varaita, agli ordini
del Marchese di Uxelles. Quando poi nel 1630, invaso dai Francesi
il Piemonte, ogni ulteriore resistenza diventò impossibile,
i Valdesi non vollero arrendersi al Maresciallo francese De la Force,
se non alla condizione di conservare i loro previlegi e di non
prendere le armi contro il loro antico Sovrano.
Ma, dopo un quarto appena di secolo, una generale reazione riaccendeva
il dissidio fra i religionari Valdesi ed il loro Principe, e nell'inverno
del 1635 le loro valli furono funestate da nuove persecuzioni. Il
Marchese di Pianezza, occupate, sotto pretesto di pacifico accantonamento,
le valli valdesi colle truppe ducali, tentò la sottomissione
terrorizzando l'inerme popolazione con feroce eccidio, alla vigilia
di Pasqua. Incendiati i villaggi, massacrati i religionari di ogni
sesso ed età, in tutte le valli, sola era sfuggita al massacro
la vallata di Rorà, abitata da 25 famiglie.
Il leggendario capo Lanavel, con soli sei uomini, arrestò in
una stretta una colonna di 400 nemici, e ne fece strage; all'idomani,
con 16 uomini, dei quali 6 soli armati di fucile, arrestò,
in altra stretta, una seconda colonna di 600 uomini. Passando i fucili
carichi ai migliori tiratori, postati in testa, allo svolto di un
angusto sentiero, e rotolando macigni dall'alto, quei pochi obbligarono
il nemico a ritirarsi con perdite gravissime. Circondato, il 27 aprile,
da numerose colonne giunte da tre lati per saccheggiare ed incendiare
Rorà, Lanavel, nella impossibilità di tenere testa,
ripiegò coi suoi a Pian Pra per piombare sul nemico stanco
dalla strage e carico di bottino, lo sbaragliò e gli ripigliò
la preda.
Nel mese seguente, e pare assai più leggenda che storia, per
snidare quella piccola banda, il Marchese di Pianezza dovette mettere
in movimento 8.000 soldati e 2.000 paesani. Menò stragi a terrorizzare
il paese, ma invano tentò di porre fine alla lotta. Ianavel,
dapprima sfuggito fra le nevi, per il Colle della Croce, nel Delfinato,
raccolse 1.500 profughi Valdesi e, sul finire di maggio, piombato
sui distaccamenti delle truppe ducali, ne fece scempio, arrivando
fino a San Secondo dove massacrò tutto un presidio di 1.400
uomini.
La lotta continuò ficchè il Duca di Savoia, cedendo,
sulle istanze di Cromwell e di Luigi XIV, stipulò nuovi patti
di tolleranza. Otto anni dopo (1663), nuova levata di armi contro
i Valdesi, nuove condanne, nuovi massacri, nuovi miracoli di resistenza.
Ianavel, raccolti nelle altre valli poco più di un migliaio
di armati, si avanzò sul contrafforte fra San Secondo e La
Tour, facendo guardare le strette di valle d'Angrogna. Inframettendosi
fra quattro colonne (forti complessivamente di circa 8.000 uomini)
le battè separatamente, infliggendo loro perdite enormi: 600
morti e 400 feriti. Per nuovo accordo fu concesso un indulto. Ventidue
anni dopo, revocato in Francia l'editto di Nantes, perduta dai religionari
ogni speranza di rifugio da quelle parti, si addensò sui Valdesi
nuova e più furiosa procella, essendosi collegate, a loro sterminio,
le armi del Duca e quelle di Luigi XIV.
In quella generale reazione, il re di Francia aveva spinto Vittorio
Amedeo II (allora diciannovenne) ad ordinare il 31 gennaio 1686 la
demolizione dei templi valdesi ed il bando dei loro ministri. Le truppe
francesi mossero insieme a quelle di Vittorio Amedeo ad investire
da ogni parte le vallate valdesi. Attaccarono: valicando i monti fra
l'alto Pragelato e la valle di Massello; rimontando da Perosa la valle
della Germagnasca (sbarrata dai Francesi col forte Luis); investendo
da ogni parte, anche per l'alto dei monti, le valli di Angrogna e
di Luserna. Ne seguì una lotta feroce, orribilmente rischiarata
ogni notte dagli incendi dei villaggi, sino agli ultimi abituri. Finita
la strage le ridenti valate ebbero la pace del cimitero. Di tutta
la popolazione valdese tremila soli riuscirono a porsi in salvo, con
mirabile esodo, rifugiandosi nei Cantoni di Ginevra, di Berna e di
Vaud; diecimila vennero internati nelle città del Piemonte;
il rimanente ucciso nella lotta od impiccato, poichè a nessun
combattente si dava quartiere.
Ianavel |
Arnaud |
In
tanta calamità, superiori alla sventura, insofferenti della
lontananza dei monti natii, i pochi Valdesi rifugiati nella Svizzera
congiurarono, fin dai primi giorni dell'esilio, di rimpatriare colle
armi in mano. Impediti due volte dal governo svizzero nei primi tentativi,
ritentarono e riuscirono prodigiosamente al terzo anno, nel 1689.
A 600 combattenti Valdesi si erano collegati, facendo causa comune,
400 fuoriusciti francesi. Si riunirono segretamente nei boschi di
Prangins, ed, attraversato su barche il lago di Ginevra, nella notte
del 15 aprile, intrapresero una meravigliosa odissea, per aspri sentieri
di alta montagna. Evitando i centri popolosi, (presidiati dalle truppe
del Re di Francia e del Duca di Savoia) marciando e combattendo senza
tregua per undici giorni, arrivarono nell'alta valle del Pellice.
In quella
marcia i Valdesi superarono i monti fra il lago di Ginevra e l'alto
Isère per i valichi di Mègive, di Haute Luce e di Bonhomme,
respingendo gli ostili montanari cattolici del sito; risalirono la
valle di Tignes, fra le nevi dell'Iseran passando nell'alta valle
dell'Arca; si affacciarono al Moncenisio, di la, evitando la piazza
forte di Susa, girarono, per l'alto, al Piccolo Cenisio, indi al colle
del Clapier e scesero in val di Dora al Giaglione. Trovata quivi resistenza
insuperabile, risalirono per sentieri il versante sinistro fino a
Salbertrand, dove, di fronte all'unico ponte della Dora, che era giocoforza
passare, stava pronto in posizione un grosso presidio francese. Lanciatisi
all'attacco, e respinti due volte, alla terza quei novecento fulmini
di guerra passarono sul corpo di 2.500 Francesi. Saliti al colle di
Coteplane, sulla dorsale dell'Assietta, scesero nell'alto Pragelato,
ne cacciarono i presìdi nemici e, dopo brevissima sosta, risalirono
l'opposto versante lanciandosi all'attacco del colle del Piz, guardato
da 800 uomini agli ordini di uno fra i più valenti guerriglieri
del tempo, il Marchese San Martino di Parella.
La Balziglia |
Una nebbia fittissima favorì l'impeto dei Valdesi, i quali
passarono, cacciando il nemico dal Piz, e, scesi nella valle di Massello,
sorpresa e massacrata presso la Balziglia una compagnia nemica, avanzarono
nella valle di Praly, e dopo brevissima sosta (durante la quale trassero
tremenda vendetta delle famiglie savoiarde venute ad occupare le loro
terre) cacciarono dal Col Giulian due battaglioni di truppe ducali,
e scesero nell'alta valle di Luserna, loro ultima meta. Ne seguì
una lunga guerriglia, nella quale poche centinaia di Valdesi, comandanti
da Arnaud, lottarono contro le truppe del Duca e quelle del Re di
Francia per tutto l'autunno e l'inverno, dopo avere improvvisata una
vera fortezza sul roccioso e ripido contrafforte che da Monte
Pelvo scende alla Balziglia. Fra quei trinceramenti 370 Valdesi resistettero
per tutto l'inverno fino al 24 maggio 1690 ai procedimenti
di un assedio regolare, ed ai ripetuti attacchi di 4.000
Francesi, con 5 pezzi di artiglieria, condotti personalmente dai generali
Catinat e Feuquières.
Giunto all'estemo esaurimento di mezzi, mentre il generale Feuquières
nel preannunciare per l'indomani al Re di Francia l'ultimo decisivo
attacco di quel covo di Barbetti soggiungeva colla più
grande fiducia: se il diavolo non mette loro le ali domani saranno
tutti nelle nostre mani, i difensori della Balziglia sfuggivano
di notte pei dirupi del Pain de Sucre, da tutti creduti inacessibili,
non lasciando altro al nemico che i prigionieri scannati. Preso il
largo, i superstiti della Balziglia, rinforzati da altre bande, continuarono
a tener la montagna con una lunga serie di brillantissime imprese.
Pochi mesi dopo, non appena Vittorio Amedeo II si rivoltò alla
pesante tutela di Luigi XIV, i Valdesi fecero causa comune colle truppe
del Duca, continuando le loro mirabili gesta ed infliggendo le più
gravi perdite all'esercito di Catinat; allorchè sul principio
di novembre, lasciate le nostre pianure, rimontò la valle del
Ghisone, per muovere alla sorpresa di Susa. Seguirono con mirabile
slancio quello stesso Marchese di Parella che li aveva combattuti
a primavera e lo aiutarono a prendere ai Francesi Castel Delfino,
il 12 novembre.
Carlo Emilio San Martino
Marchese di Parella |
Malgrado
la molta neve, essi passarono le Alpi menando fiere puntate nel Delfinato,
e, svoltando a dicembre nella valle di Barcellonetta, compirono rappresaglie
sul paese nemico fino alla metà di gennaio. Troppo lungo sarebbe
riassumere le gesta dei Valdesi in tutte le campagne, che negli anni
successivi si rinnovarono sulle Alpi fino alla pace di Utrecht (1713)
e nelle quali fieri alpigiani lottarono contro le più agguerrite
truppe di Francia, condotte da capi quali Catinat e Villars. Fedeli
quanto valorosi, essi respinsero, quasi appena iniziato, il tentativo
(1704-1708) di una repubblichetta nella vallata di San Martino. Il
tentativo francese di trar profitto dal loro sentimento di indipendenza,
con ogni mezzo, per staccarli dalla patria comune non riuscì.
Era ancora troppo viva l'eco dell'ordine di di Louvois: Bruciate,
bruciate tutto, mandato da Parigi a Catinat, troppo efficace
l'esempio di Casa Savoia, la quale in ogni guerra divideva personalmente
tutti i cimenti del suo popolo e troppo caro il ricordo di Vittorio
Amedeo II, che, fra le borgate ancora fumanti per gli incendi, spezzava
il suo collare dell'Annunziata per distribuirne i frammenti alle genti
immiserite.
Non invano quel principe, assediato da La Feuillade nel 1706 a Torino,
si era affidato al valore ed alla lealtà dei Valdesi rifugiandosi
in uno dei momenti più critici, nella valle di Rorà.
Quando, dopo trent'anni di pace, una nuova bufera si addensò
sulle Alpi occidentali, (invase dai Gallo-Ispani nella guerra di successione
di Austria) i Valdesi furono non solo i vigili custodi dei valichi
affidati al loro valore e gli scorridori fortunati sul paese nemico,
ma i brillanti cooperatori di due fra le maggiori vittorie che obbligarono
l'invasore degli Stati del Re di Sardegna a ripassare le Alpi.
Monumento all'Assietta |
Nel
1744, infatti, 5.000 Valdesi piombarono inaspettati sulle retrovie
dei Gallo-Ispani, che, scesi per valle di Stura, assediavano Cuneo;
distrutti i depositi di munizioni del nemico, attaccarono il corpo
d'assedio e largamente contribuirono al successo della campagna, molestando
poi l'invasore, anche nella sua ritirata.
Coll'antico valore
concorsero, tre anni dopo (combattendo sui trinceramenti dell'alpe
d'Arguel) alla vittoria dell'Assietta, che troncò una invasione
e dimostrò al mondo come, anche nelle Alpi, si possono trovare
le grandi soluzioni della nostra difesa, senza aspettare
il nemico sul Po. Durante la guerra della Rivoluzione Francese,
(dal 1792 al 1796) portarono largo contributo di aiuti nelle operazioni
difensive che si svolsero lungo le loro valli. Se a qualcuno questi
ricordi paiono soverchi, rifletta che "la storia del valore non
è mai lunga", che a questi esempi si temperano i caratteri
e si eleva la coscienza, della forza nostra.
Nel
Cadore come nelle valli Valdesi tutto un popolo ha dato, da tempi
immemorabili, tali prove di costante valore, contro ogni prepotenza
straniera, da far parere risorta quella virtù che nei più
eroici tempi di Roma frustrò le vittorie di Pirro e di Annibale.
Nell'anno 1848 i Cadorini (come fu ricordato recentemente nel conferimento
della medaglia d'oro al valor militare alla bandiera del
Cadore) abbandonati da tutti, senza che alcuno di fuori li sostenesse,
li sussidiasse (non pur di soldati, ma di strumenti di guerra, di
danaro, di viveri) compirono una difesa veramente degna di poema e
di storia.
Questa lotta non ha forse l'eguale in alcuna delle più celebri
guerre popolari dell'Italia, della Spagna, della Grecia, della Polonia,
dell'Ungheria, delle Fiandre.
Attaccati
da truppe regolari, dieci, venti, cento volte superiori per numero,
da settentrione, da mezzodì, da levante, i Cadorini non contarono
mai i loro nemici. Dove mancavano cannoni e fucili, supplivano batterie
di sassi e tridenti. Alle intimazioni dello straniero, la sola risposta
era sempre quella del fiero fiorentino a Carlo VIII: "Suonate
le vostre trombe, e noi suoneremo le nostre campane". In Calalzo,
rimaste sole le donne in paese, mentre gli uomini combattevano altrove,
esse, dato di piglio alle campane, sbigottironi il nemico, colto come
in imboscata dai rintocchi di tutti i campanili, che, con lugubre
accordo, da ogni parte rispondevano a stormo. Ad Oltrechiusa, uomini
e donne, con picche e tridenti, arrestarono una grossa colonna austriaca,
mentre in tutto il paese all'intorno le campane a stormo echeggiavano,
formidabili voci di un popolo deciso ad ogni estremo per la difesa
dei lari. (5)
Pietro Fortunato Calvi |
Al
comandante nemico, venuto a parlamento e chiedente che cosa significasse
quello scampanio, risposero: " Le campane suonano la nostra
o la vostra agonia". Degni dei loro avi, vittoriosi nel
1508-1511 a Rusecco, a Cibiana, a Belluno, a Vallesella, contro tutti
gli attacchi delle aguerrite truppe di Massimiliano d'Austria, i Cadorini
del 1848 ripeterono quei prodigi: moltiplicandosi con la fulminea
rapidità delle mosse, sotto il magistrale comando del Calvi,
pugnando da leoni e rintuzzando le forze nemiche, da ogni parte minaccianti,
a Chiapuzza, a Rivalgo, a Rucorvo, alla Chiusa di Venas, al Passo
della Morte.
Le strette del Tagliamento, del Piave, del Boite, la valletta di Rindomera,
novelle Termopili, videro i nostri montanari pari di valore, superiori
in fortuna ai leggendari compagni di Leonida. Anche nel 1866 la brillante
tradizione, sempre viva nei cuori cadorini, ebbe una gloriosa conferma
su l'alta Piave, ai Tre Ponti, dove un pugno di prodi ricacciava,
con scorno, una colonna austriaca forte di 1.300 uomini scesa per
il Comelico a molestrare il paese, all'indomani dell'armistizio già
firmato a Cormons. Quest'ultima prova, assieme a quelle date nello
stesso anno dalle milizie improvvisate in Valtellina e brillantemente
condotte da Enrico Guicciardi, valse meglio di ogni altro argomento
a dimostrare tutta la convenienza di un assetto permanente di truppe
alpine; ed è prezzo dell'opera qui rammentarlo, dovendosi,
a quegli esempi, l'ispirazione del novello ordinamento.
Tre Ponti |
Dai ruderi della Cosseria alle balze della Marta, alle vette dell'Aution,
alle barricate di Stura, ai ruderi di Demonte, di Casteldelfino, di
Mirabocco, ai dirupi della Balziglia, all'Assietta, alle barricate
di Susa, alle strette della Pierre Taillèe, e dell'Alto Ticino,
ai gioghi dello Stelvio e del Mortirolo, al Caffaro, alla Corona,
a Monte Suello, alle gole di Condino, di Ampola, di Bezzecca, di Valle
Lagarina, di Primolano, alle Termopili del Cadore, ai trinceramenti
di Osoppo, ogni pietra parla un linguaggio che nessuna penna vale
a riprodurre. La storia di quelle imprese è in gran parte da
scrivere o da rifare, ma sta scolpita nel cuore delle nostre popolazioni
alpine, evocata perennemente con prodigioso effetto dalla vista dei
siti memorandi. Passeranno i secoli, ma monumento di gloria rimarranno
le nostre montagne e ricordare le imprese dei difensori delle Alpi
finchè sia caro ed onorato il sangue per la patria versato.
Tanto patrimonio di ricordi nazionali non ebbe nel nostro paese il
culto che meritava, quando la maggior parte degli italiani era quasi
straniera in patria, ed il torpore di lunga pace e l'opera nefasta
della dominazione straniera assopiva l'attività dei più
ed inviliva gli animi. Anche al cessare di queste cause, durante il
primo risveglio del sentimento e della energia nazionale, quel cumulo
di ricordi non assunse interesse di attualità, poichè
le prime lotte per l'unità della patria deviarono l'attenzione
degli Italiani dalle Alpi per attirarla essenzialmente verso i campi
lombardi e piemontesi, sul quadrilattero veneto, e, giù, lungo
la penisola fino all'estrema Sicilia.
Le maggiori e decisive battaglie delle nostre guerre del 1848-49-59-60-61-66
furono infatti combattute nelle nostre pianure e lungo la penisola.
Fra le Alpi non si erano compiuti nel 1848 che fatti d'armi di secondaria
importanza per l'esito finale della guerra, come quelli delle Giudicarie,
dello Stelvio, delle rive del Lago Maggiore e del Cadore. Le stesse
operazioni del 1859 nelle alte valli del Chiese, dell'Oglio e dell'Adda,
e quelle compiute nel 1866, su scala più larga, nelle valli
suddette, nella valle Sugana e nel Cadore, per quanto interessanti,
non ebbero che una funzione secondaria. Però, al pari delle
prime, esse dimostrarono che, se la tempra del soldato italiano reggeva
al confronto di quella degli avi, si erano dimenticati i loro ammaestramenti.
E si sprecava l'abnegazione ed il valore per mancanza di preparazione
alla guerra di montagna.
La dura esperienza fatta ed i confronti col passato, indussero a rimontare
alle origini, e rievocare la robusta sapienza che i nostri padri avevano
maturato e consolidato in tante brillanti campagne combattute sulle
Alpi. Apparve allora largamente manifesto: quanto fossero manchevoli
nella regione alpina i nostri ordinamenti militari di fronte a quelli
di un tempo ed a quello contemporaneo dell'Austria, e quanto fosse
urgente l'instaurare le antiche tradizioni alpine degli Italiani.
Nello stesso tempo vennero posti in evidenza, nei progetti della Commissione
di difesa, le gravi lacune lasciate, per necessità finanziarie,
nella permanente preparazione della nostra frontiera alpina. La situazione
finanziaria aveva indotto il Governo in quel momento a rimandare ad
altra epoca gli sbarramenti nella regione ad oriente del Piave, sulla
frontiera verso l'Austria, e quelli di tutta la frontiera Elvetica,
facendo affidamento: su la lontananza dell'Isonzo dal cuore del
Regno e sulla neutralità della Svizzera, argomenti non
abbastanza rassicuranti. Preoccupato dei pericoli minacciati da tali
deficenze, e profondamente convinto della loro gravità, in
seguito a ricognizioni compiute in tutta la zona alpina dal 1867 al
1871, presentai sul finire del 1871 alle superiori autorità
militari una memoria su quei pericoli, aggiungendo la proposta
di prevenirli con l'ordinamento territoriale di una vera leva in massa
di genti delle Alpi pronte a mobilitarsi su la frontiera e ad operare
attraverso ad esse.
Quintino Sella |
Il pensiero di profittare delle trafizioni guerresche delle nostre
valorose genti delle Alpi, ispirato da tanti splendidi esempi antichi
e recenti, aveva già trovato parecchi fautori presso gli studiosi
di cose militari. Il colonnello Ricci aveva ideato di utilizzare almeno,
come in altri tempi, le così dette milizie provinciali
delle valli alpine. I generali Bava, Beccaros, Massari e Martini avevano
caldeggiata l'idea di qualche miglior preparazione nelle Alpi delle
forze locali. Ma per vincere le molte difficoltà di una innovazione,
in quel momento di economie fino all'osso, (che avevano ridotto
l'esercito ad uno scheletro rendendo impossibile ogni partecipazione
alla guerra del 1870, e malagevole persino la marcia su Roma)
era necessaria una proposta che, contenendo il germe di una completa
istituzione, si presentasse, modestamente, attuabile subito,
coi pochi mezzi disponibili e senza perdere tempo in discussioni
parlamentari.
Con questo concetto, lasciata da parte ogni idea di imitare l'Austria
con speciali leggi di reclutamento per le popolazioni alpine, (modalità
che avrebbe senza dubbio dato luogo a lunghe discussioni richiedendo
l'emanazione di apposita legge) studiai una proposta di ordinamento
militare territoriale della zona alpina, che, profittando di facoltà
già sancite, potesse essere attuata senza ricorrere a nuove
leggi. Fortunatamente quella, recentissima allora, di riordinamento
dell'esercito, proposta dal Ministro Ricotti, già in via di
attuazione, lasciava un largo margine per introdurre un po' di straforo
la desiderata innovazione. Il numero dei Distretti Militari già
funzionanti nel 1871 era, di fatto assai minore di quello già
autorizzato da quella legge. Perciò nulla impediva che si attuasse
una proposta di attuare nelle Alpi nuovi distretti che fossero base
di reclutamento e di ordinamento di truppe, assegnate alla difesa
delle porte d'Italia. Così pure era già per legge lasciata
facoltà al Ministero della guerra di costituire presso i distretti
un certo numero di compagnie permanenti, e nulla impediva che quelle
compagnie permanenti fossero reclutate fra gli alpini.
La mia proposta di veri distretti alpini non fu attuata integralmente,
ma, col tempo, vi si supplì istituendo, nelle Alpi, depositi
e magazzini per la pronta mobilitazione. Con Regio Decreto del
15 ottobre 1872 il numero dei distretti militari venne aumentato,
e, come è chiarito nella Relazione che precede quel decreto,
" fu pure alquanto accresciuto il numero delle compagnie
distrettuali permanenti essenzialmente perchè ai distretti
verrebbe associata un'altra istituzione: la creazione di un certo
numero di Compagnie Alpine, di compagnie cioè reclutate nella
regione montana, le quali avrebbero per speciale destinaxione la guardia
di alcune valli della nostra frontiera occidentale ed orientale".
In attuazione di questo decreto vennero nel marzo 1873 riunite le
prime 15 Compagnie alpine, le quali, per il momento, rimasero aggregate
ai distretti; ma, affidate a capitani distintissimi per energia, iniziativa
ed intelligenza, e dislocate molto opportunamente sulle Alpi, fecero
ben presto ottima prova, emulando nelle più difficili escursioni,
compiute in armi e bagaglio, gli ardimenti del club Alpino
Italiano, sorto da nove anni su iniziativa e l'esempio di Quintino
Sella, e già rivaleggiante cogli escursionisti stranieri, i
quali fino allora avevano primeggiato nelle ascensioni e nelle illustrazioni
delle Alpi nostre.
Tenente Colonnello Davide Menini
(morto a
Monte Rajo con gli Alpini) |
Sul
successivo sviluppo delle Milizie Alpine e su la portata delle mie
proposte in proposito ha riferito ampiamente il capitano Bourbon Del
Monte il quale pubblicò nel 1898 un interessante opuscolo,
rendendo conto delle origini e del battesimo del fuoco degli Alpini;
e, più tardi, ne iniziò gli Annali, la pubblicazione
dei quali rimase interrotta per molti anni e solo ora promette di
riprendere vita nella nuova Rivista di Fanteria. Allora notevole
pubblicazione, intrapresa dal capitano Sticca col titolo "Non
si passa" ebbe nel 1891 una seconda edizione col titolo
Gli Alpini e già se ne annuncia una più diffusa
trattazione, comprendente i più recenti fatti di guerra. Non
pochi altri interessanti studi su le nostre truppe di montagna formano
ormai una vera Bibliografia Alpina, offrendo larga messe agli studiosi.
Per non abusare
della pazienza di chi mi ha seguìto fin qui non aggiungerò
che poche notizie e considerazioni su la istituzione delle truppe
di montagna che in 42 anni (6) dalla prima formazione
sono oggi arrivate a raggiungere precisamente quasi tutto lo sviluppo
al quale ho preludiato nella mia prima proposta e costituiscono oggi
otto reggimenti (6) . A queste meravigliose truppe
si sono venute aggiungendo le impareggiabili nostre batterie di artiglieria
da montagna le quali, oggi finalmente, hannno raggiunto lo sviluppo
con insistenza richiesto già da parecchi anni dalla Commissione
di Inchiesta per l'Esercito, formato da tre reggimenti. (6)
Questi miglioramenti costituiscono il più confortevole progresso
rispetto al tempo nel quale, come ebbi a deplorare nella mia memoria
del 1871, si lasciavano nei magazzini i materiali dell'artiglieria
da montagna, sicchè per impiegarli si doveva prendere muli
dal Treno e personale dal reggimento di artiglieria da campagna, come
io stesso vidi praticare dal 1867 al 1869, per manovre, ordinate dal
generale Pianell, nelle zone alpine.
Altra innovazione
felice è la istituzione di Milizie Alpine volontarie,
con le norme già adottate per i Volontari Ciclisti-Automobilisti.
Come avevo annunciato nella citata memoria (invocando l'esempio dei
Bersaglieri Volontari qualificati del Tirolo) quei volontari
alpini sono un necessario completamento della nostra leva in massa
a difesa delle frontiere. Un ultimo complemento, (che rimane da ordinarsi
e che per il momento può trovare un princìpio d'applicazione
utilizzando in montagna una parte delle "guide Nazionali Volontari
a Cavallo" (istituite per iniziativa dell'avv. Lanza di Mira)
è quello di reparti alpini a cavallo (7).
Non credo inutile ricordare che i Romani, nell'ordinamento delle Cohortes
Alpinorum, avevano non solo delle coorti a piedi (peditatae)
ma anche delle coorti miste di pedoni e cavalieri (Cohortes equitatae).
Come risulta dagli studi del De Ruggero le coorti alpine dei Romani,
quando avevano fanti e cavalli (equitatae), si componevano: se
quingenarie (ossia di 500 militi) di sei centurie a piedi
e di sei turme a cavallo, forti ciascuna di venti cavalieri; se miliarie
(ossia di mille militi) di dieci centurie a piedi e di duecentoquaranta
cavalieri, divisi in dieci turme o, seguendo il parere del Mommsen,
in otto turme.
Ricordo in proposito che nella iscrizione romana trovata in Dalmazia,
nell'antica Salona (Spalato), da me riportata sul Corriere della
Sera del 2 gennaio ultimo scorso, si riconoscono le benemerenze
e si concede la cittadinanza romana ai militi a piedi ed a cavallo
(peditibus et equitibus) della 1^ Legione Alpina colà
stanziati. In molte manovre compiute sulle Alpi, tanto nel comando
di un Reggimento di fanteria, quanto in quello di una Divisione, ho
avuto occasione di constatare i grandi servizi che possono ottenersi
da cavalieri bene abituati alla montagna; servizi che, in quei casi,
vidi disimpegnati con meravigliosa prontezza da soldati dei reggimenti
Lucca e Roma, montati su cavalli sardi, bene allenati. Ma per non
distogliere soldati dai Reggimenti, gioverebbe che, sull'esempio dei
nostri antichi padri, s'ordinassero presso gli Alpini piccoli reparti
di cavalieri, o che, almeno, si desse largo sviluppo alla istituzione
delle Guide Nazionali Volontarie a Cavallo, interessando i nostri
giovani allo sport dilettevolissimo delle escursioni a cavallo, in
montagna, piene di attrattive, fra le nostre Alpi.
Molto potrei aggiungere se non temessi abusare della pazienza dei
lettori. Ai più studiosi raccomando di consultare le poche
pubblicazioni citate. Il risultato dei ricordi riassunti in queste
pagine non può essere che uno; elevare i cuori alla più
salda fiducia nel nostro esercito, secondo a nessuno. Al risorto antico
valore gli Italiani aggiungano la concordia, e la vittoria coronerà
i nostri sforzi. Le grandi speranze, concepite dalla Nazione quando
il Padre della Patria chiamò i difensori nati delle Alpi a
difesa delle porte d'Italia, furono coronate in quarantadue anni dai
più brillanti fatti compiuti, e nella buona fortuna e nella
storia, dai Soldati Alpini. Al battesimo del fuoco, al Monte Rajo,
essi fronteggiarono impavidi il soverchiante nemico, sopraffatti dal
numero non dal valore, e caddero eroicamente al loro posto.
In Libia ed a Rodi si sono coperti di Gloria.
Fino dal
primo scontro nell'odierna guerra, superando difficoltà sorprendenti,
hanno guadagnato le prime medaglie al valor militare ed il plauso
di Vittorio Emanuele III.
note di redazione:
(1)
Noblesse oblige: vuole esprimere il significato che "per
i valori radicati nell'animo di chi vive in montagna, è spontanea
la solidarietà, il mantenere fede, ecc., perchè questi
sentimenti sono insiti nella sua natura"
(2) Norico: antica regione danubiana tra la Rezia
e la Pannonia, corrispondente all'odierna Austria e a parte della
Boemia; città principale Noreia (oggi Neumarict). Divenne provincia
romana nel 13 avanti Cristo.
(3) forra: gola di erosione stetta e ripida
(4) finis Italie: la fine dell'Italia
(5) lari: gli dei protettori della casa presso i
Romani; erano le anime dei defunti divinizzate
(6) va inteso alla data di pubblicazione dell'artcolo
nel luglio 1915
(7) reparti alpini a cavallo: può far sorridere
oggi tale proposta che ritengo sconosciuta a molti, ma va considerata
nel periodo in cui è stata formulata.
Tratto da:
LA
LETTURA, rivista mensile del Corriere della Sera, Milano,
anno XV n°7 - Luglio 1915
note
di redazione:
*
Giuseppe Domenico Perrucchetti, nato a Cassano d'Adda (Milano) il
13 luglio 1839. Avviato agli studi di architettura nell'università
(allora austriaca) di Pavia, scappa nel Piemonte libero e segue la
carriera militare. Nel 1861 è nominato sottotenente di fanteria
e nel 1866 nella battaglia di Custoza si guadagna la medaglia d'argento
ed i gradi di capitano. Passa poi nel Corpo di Stato Maggiore e diventa
insegnante di geografia militare alla Scuola di Guerra di Torino.
Nel marzo 1872 pubblica sulla "Rivista militare italiana"
un articolo dal titolo "Sulla difesa d'alcuni valichi alpini
e l'ordinamento militare territorriale nella zona di frontiera"
dove, oltre alle sue considerazioni, propone la costituzione di forze
militari reclutate nella vallate alpine che, per conoscenza specifica
dei luoghi, addestramento ed innato carattere, formerebbero formidabili
unità difensive del medesimo settore o distretto. In pratica
propone la costituzione del Corpo degli Alpini che, come sappiamo,
nascono ufficialmente con regio decreto del 15 ottobre 1872 firmato
da Re Vittorio Emanuele II. Il nostro Papà continua
ad insegnare geografia militare alla Scuola di Guerra di Torino fino
al 1885, diventa poi il precettore del duca d'Aosta Emanuele Filiberto.
Promosso colonnello nel 1888, quindi generale di Brigata nel 1895,
viene promosso al grado superiore di Tenente Generale nel 1900 e ricopre
gli incarichi di comandante delle divisioni territoriali di Firenze
e poi di Milano. Posto in congedo nel 1904, viene eletto Senatore
del Regno. Muore a Cuorgnè (Torino) il 5 ottobre 1916, quando
i "suoi" Alpini avevano già avuto il battesimo
del fuoco e di sangue in Africa e da un anno nelle montagne del Trentino.
Al Generale Perrucchetti, l'Associazione Nazionale Alpini ha dedicato
a Cassano d'Adda dove era nato; una targa posta nel portone del Castello
Borromeo, nell'omonima Piazza Perrucchetti, inaugurata il 27 giugno
1920 ed un imponente monumento, sempre a Cassano d'Adda, inaugurato
il 2 ottobre 1932.
Per ulteriori notizie biografiche, vi sono in internet centinaia di
siti che le propongono molto dettagliate.
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