rassegna stampa da L’ALPINO
periodico dell’Associazione Nazionale Alpini
ACCANTO
AL FUOCO
di Noël Quintavalle *
pubblicato il 15 novembre 2010
testo trascritto da Giuseppe Martelli
dalla propria collezione cartacea de L'ALPINO
Fa
freddo.
Forse
la primavera ha tanto da fare in basso, nella pianura lontana
dove i campi allineano le fruttifere piante desiderose di
sole pei loro boccioli infreddoliti. E non ancora s’è decisa
a salire quassù in montagna dove le larghe chiazze nerastre
di terra grassa affiorano tratto tratto fra il candore della
neve.
Fa
freddo. Marzo è pigro: non ancora s’è provato, con la sua
scopa di vento, a spazzar via questo gelo che tutto ricopre,
a far crollare dai rami intirizziti i ghiaccioli che li arabescano.
Sto
accanto al fuoco.
Dalla
finestra il sole mi getta a manciate le ultime luci rosse,
ed il ciangottio della pentola, nel grande camino, accompagna
in sordina il ruglio del torrente lontano. Fra
poco dilagherà la solita luce verdastra che svuota l’anima
ed il cervello. Le campane delle mucche che rientrano saranno
ingoiate dal silenzio delle tiepide stalle. Si avvicina il
miracolo della notte in montagna. Cerco
di occupare il mio cervello per sottrarlo agli artigli della
malinconia.Non
ho più pianto, dal giorno in cui baciai mia madre per andar
in guerra. E non voglio ora, a trent’anni suonati, ancora
imparare a piangere. Guardo
il fuoco. E’ il bagliore della fiamma che tremola nel mio
occhio arrossandolo. Ed
inconsciamente il mio sguardo vago segue i contorni della
pentola. Rotonda. Le sapienti mani di Lena l’hanno tanto lucidata
che sembra rosata, con riflessi più cupi di carne abbronzata
al sole.
Rotonda.
Rosata…
Toh!
Di colpo rivedo il mio attendente: “Cranio”. Anche
lui rotondo, rosato.
La
montagna affratella; e la malignità umana, la triste malignità
che si appunta nello scherno, sui ghiacci eterni scivola senza
far presa. Forse per questo i montanari non sanno schernire,
ed il loro scherzo bonario lo possono sorridere guardandosi
negli occhi. Lo
conobbi in guerra. Me lo portarono dinnanzi, riluttante, come
una pecora per la tosatura, a prendere il posto del mio attendente
che una pallottola intelligente aveva spedito all’ospedaletto.
Notai
quella sua riluttanza: - Non hai voglia di far l’attendente?
– Biasciò qualcosa, con la bocca sprofondata nel bavero. –
Cosa? – La mia voce doveva essere infastidita perché rialzò
di colpo il capo fissandomi con due occhi disperati, rotondi
e fissi come palline di vetro: - A l’ai vergogna! (ho vergogna)
ma si a chiel ai piasò a sonn conntènt. (Ma se a lei piaccio
son contento). E si cavò cortesemente il cappello, abbozzandomi
un sorrisetto di intesa che gli girava in su mezza bocca.
– Tieni il cappello. Non sei mica un borghese! – Mi ai lo
gavu sèmpre; a m’ disturba pa niente; a sonn pa un slandron
(io lo levo sempre, non mi disturba affatto; non sono mica
un lazzarone). E non ci fu verso di farglielo rimettere.
Biondo.
Piantato come un torello. Intelligente forse come un bue.
Buono come il pane. Uno di quei ragazzi di montagna in cui
la bontà si riconosce al fiuto, come i tartufi. Intelligenza
come il suo viso, tonda, senza spigolo od angolo, senza doti
caratteristiche che la rivelino. Intelligenza bianca e rosa
come le gote. Sembrava uno di quei soldatini di legno, tutti
tondi, tutti verniciati. Quand’era fermo veniva fatto di guardagli
sotto ai piedi a cercare il tondello di legno che lo sorreggesse.
L’unica difficoltà tra me e lui consisteva nella lingua. Io
non sapevo il suo Piemontese; lui, per quanto facesse sforzi
eroici, non arrivava al mio Italiano.
Alle
volte, a talune mie parole, mi spalancava in faccia le sue
palline di vetro celeste piantate nelle occhiaie; e rimaneva,
attonito, in smorfia disperata, con la rosea bocca aperta
a completare, con le guance ed il mento, la serie dei circoli
del suo volto. Soltanto ricorrendo ad un interprete vedevo
finalmente i muscoli del suo volto smuoversi pian piano sino
a ridargli la fisionomia abituale, vale a dire la completa
atonia.
Del
resto credo che anche il mio viso non fosse eccessivamente
furbo quel giorno in cui egli, sfoggiando per la prima volta
le sue nozioni di italiano, venne ad annunciarmi che il capitano
ch’io cercavo, era “cogiato indromito” nella tenda. Allora
ebbi necessità io dell’interprete per comprendere che il capitano
era coricato ed addormentato nella tenda. Dieci volte fui
sul punto di licenziarlo e dice volte, dinnanzi ai suoi tondi
occhietti da cane affezionato, me lo tenni non solo, ma mentalmente
gli chiesi scusa del mio proposito.
Una
sera ch’io tremavo di freddo e di febbre, nella mia fradicia
cuccia in trincea, dopo avermi fissato imbarazzato mezz’ora
senza osare di parlare, sbottò fuori: - Signor Tenente,
si facci coraggio. A l’è pa niente, guarirà presto! – E
scappò via trotterellando sulle gambe troppo grasse per
camminare come quelle degli altri. Quattro parole. E banali,
fors’anche stupide. Ma dette con ingenuità tanto comicamente
affettuose che mi sentii meglio, e le pareti di terra scivolosa
mi parvero meno inospitali, ed il giaciglio di zolle fradice
meno ostile alle mie ossa stanche. Ad ogni istante me lo
sentivo accanto. Non osava domandare; tossiva in falsetto,
acutamente, per far bene intendere ch’era li ai miei ordini.
Un’altra sera, cambiando trincea nell’avanzata, avevo preso
posto in una piccola buca distante da tutti gli altri. Quella
distanza fra me e lui, in una notte in cui c’era pericolo,
evidentemente non gli andava. Dopo aver fatto un giro d’ispezione
(lui m’era sempre alle calcagna) gli augurai la buona notte
avviandomi alla mia tana. Non v’ero ancor giunto che me
lo sentii trotterellare dietro, ansante come chi ha un grosso
peso sullo stomaco. – Signor Tenente…- Cosa vuoi? – Ma lui
dorme qui, tutto solo? – I suoi occhi erano più tondi, guardavano
più disperatamente del solito, celesti fra il rosa circostante.Si
vedeva che faceva uno sforzo terribile per osare di interrogarmi
con tanta indiscrezione. Gli tremava persino il mento, come
ad un bimbo vergognoso. – Si. Io dormo qui. Tu va con gli
altri. – Tentennava. Il dovere gli imponeva di obbedire
ma la cosa non gli garbava per nulla. – Ma signor Tenente..non
avresti più caro che io cogiasse li con lui? – Ma no, qui
non c’è posto. Va con gli altri. – Lui se n’andò, dimenandosi
come un rospo scontento. Mi arrangiavo nella buca quando
eccolo di nuovo. Si vedeva chiaramente ch’era disperato.
Non sapeva spiegare che aveva paura per me, sperava ch’io
lo comprendessi e gli mancava il coraggio di farmelo capire.
Poi,
di colpo, d’un fiato solo: - Ma signor Tenente, non avrai
paura solo pareil? – Ce ne volle per rassicurarlo e mandarlo
via. Più tardi, fra lo scroscio sottile della pioggia sopravvenuta,
qualche fucilata lontana mi scosse; nulla, finì subito;
mi rannicchiai di nuovo a cercare il caldo ed il sonno.
Ma un altro rumore mi scosse: uno starnuto. Lo starnuto
usciva da un involto scuro presso la roccia; sull’involto
scuro presso la roccia biancheggiava un circolo rosato.
La sua faccia. Lui: - Cosa fai li? – Lui era mortificatissimo
d’essersi scoperto con quel maledetto starnuto. Piagnucolò
come un bimbo colto in fallo: - Ho sentito sbarare..mi pareva
una cosa lasciarti qui da solo! – Per compassione, per risparmiargli
una polmonite, lo accolsi nella mia buca, chè di farlo andar
via non ci fu verso. L’indomani si scavò una buca li presso
a me e non si allontanò più altro che per andare un momento
nella sua trincea perché : “aveva smientato il tascamarocco
e la gavanella trinceria”. Cioè, volgarizzando, aveva dimenticato
il tascapane e la gavetta.
“Cranio”
buon torello biondo, non scandalizzarti se questa sera il
tuo “tenente” ha gli occhi rossi rossi e lustri lustri.
E’ il riflesso della fiamma, è il fumo che il vento mi rimanda
dal camino. Ti ricordi quell’altro camino, a Volzano, nella
casa semisventrata dai 305? Erano tre mesi consecutivi che
non si mangiava più nulla di caldo. E lui era riuscito ad
uccidere una lepre, a trovare una pentola, a scovare un
muro in piedi con un camino quasi intero. Rimestava il ragù
nella pentola; si abbruciava distrattamente le dita; bestemmiava
tra le gote paffute e si mordeva la lingua per non bestemmiare
in mia presenza. E piangeva. (Si Cranio, non negarlo. Piangevi!).
Prima l’avevo attribuito al fumo; ma dove io mangiavo, dopo,
all’aria aperta, fumo non ce n’era, ed i suoi occhi gocciolavano
ancora, mentre mi serviva il ragù, rigando le guance rosa.
– Cos’hai? – Niente, pa niente…- Non fare lo stupido. Parla.
Ti senti male? – Voleva fare l’eroico, a ridere. Ma un singhiozzo
gli strangolò il sorriso incominciato, lo squassò tutto
minacciando una cascata di ragù sui miei calzoni. – Ah,
sgnour tenènt, mi perdoni neh; a soun na béstia, n’asu.
Ma dco mia mare, neh, anche mia mamma a l’a na pentola pareil
an ca sua. Sono venti mesi, neh, che non la vedo, sgnour
tenènt! – A quella parola “mamma” lo stesso groppo che lo
faceva singhiozzare mi serrò la gola con le sue dita adunche.
Non piansi come lui, perché un tenente non deve piangere
dinnanzi all’attendente. Ma due bei bacioni, ah questo si,
perdio!, sulle gote rosate di “cranio” ce li stampai. –
Cranio, domani fai fagotto e vai in licenza. Parola di tenente.
– Patatrac. Il ragù era in terra. Ma nessuno dei due se
ne ricordava. Lui non lo vidi più. Era scomparso a nascondere
le lacrime in qualche angolo solitario.
Tanto
feci che la licenza glie la dettero. Partì imbottito di mille
straccerie scovate chi sa dove, fra le macerie, per portare
dei ricordi della guerra ai suoi.
Tanto
imbottito da sembrare ancora più grasso, s’era possibile. Non
si decideva ad andarsene. Mi stava dinnanzi impalato, fissandomi
con gli occhietti tondi e lustri, incapace a parlare. Poi d’un
tratto un coraggio inaudito lo colse. Come un turbine mi piombò
addosso, sentii il suo faccione tiepido sul mio viso, mi sentii
innaffiare le guance (Erano baci? erano lacrime? o forse semplicemente
il naso?) – Chièl a l’è un angelo, un angelo! –
Mentre
io, trasognato, mi chiedevo se proprio era lui, il soldatino di
legno lustro ad osare tanto, lui era già lontano; la sua tozza
persona, ingoffata ancor più dall’imbottitura delle “memorie”
fuggiva sul profilo d’una collina, trotterellante sulle gambe
troppo grasse per camminare come quelle degli altri.
Non
l’ho più rivisto.
E
forse, senza la pentola rosata, ora non saresti qui a tenermi
compagnia vicino al fuoco, buon Cranio; ecco, ti stringo come
allora ed ancora, sulle paffute guance rosa, come allora ti
stampo due bacioni, mio amico di guerra, mio fratello… Ma
adesso vattene, Dio Santo; vattene, Cranio! Non farmi dimenticare
la mia promessa: che, a trent’anni suonati, non voglio, di nuovo,
imparare a piangere!
Articolo pubblicato, compreso i disegni dell’autore, sul giornale
associativo dell’A.N.A. L’ALPINO n° 7 del 15 aprile 1925.
* Noël Quintavalle, in arte Noelqui, artista e scrittore
d’origine ferrarese, già ricordato nel sito ( apri
biografia )
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