rassegna stampa da L’ALPINO
periodico dell’Associazione Nazionale Alpini
monsü ghirba
di Noël Quintavalle *
pubblicato il 15 novembre 2010
testo trascritto da Giuseppe Martelli
dalla propria collezione cartacea de L'ALPINO
Sarei
curioso, giuro, di sapere qual nomignolo m’avessero appioppato in
guerra i miei soldati. Poiché, all’infuori di me, non conobbi soldato
o graduato od ufficiale che non fosse, mezz’ora dopo il suo arrivo,
contraddistinto, bollato od accarezzato da un soprannome.
E
così lui era “Monsü Ghirba”. La ghirba, tutti lo sanno, dalla sua
funzione libica di otre per l’acqua, in seno traslato fu in guerra
adoperata per designare la pancia. Con licenza se mi legge qualche
inglese. “Monsü Ghirba”. Lui pancia non ne aveva; era brutto, vero;
informe, verissimo; anzi, dirò meglio, senza una forma definita:
molle e gelatinoso come se neppure la pelle, ma solo i vestiti servissero
a tener assieme la carne. Ma pancia no. E allora perché: Monsü Ghirba.
Signor Pancia? Me lo spiegò cortesemente un caporale: - Viedlu,
a l’è pa che chièl a n’abia, ‘d ghirba. A l’è ch’a i ten prò alla
ghirba! (Vede, non è che ne abbia, di pancia. E’ che alla pancia
ci tiene molto!)
Il
modo con cui lo conobbi non me lo presentò certo sotto un aspetto
troppo eroico. Una pattuglia doveva sortire di trincea per un taglio
di reticolati; mi si presentò, tutto trafelato, il sergente della
pattuglia: - Tenente, c’è un soldato che mi rifiuta obbedienza!
– Caspita, l’affare non era da poco! Lo seguii lungo la trincea
finché si arrestò: - Eccolo – E mi indicò una massa confusa accucciata
al suolo, tremebonda e sporca come un sacco di cenci abbandonato
in balia del vento. – Cosa fai lì? – Al suono della mia voce il
sacco ebbe un sussulto, qualcosa come un braccio si sprigionò dalla
massa informe, e con gesto convulso levò il cappello alpino scoprendo
un capo che, volto in su, piantava nei miei due occhietti spersi
di cane randagio, minacciato.
Descriverlo,
un capo simile, non è impresa facile: immaginate press’a poco un
cacio d’Olanda col suo colore naturale, in cui ci si affondano due
occhietti minuscoli, ed in cui galleggia un nasino a patatina novella,
un nasino tanto minuscolo che le gote, quando è volto di profilo,
lo nascondono alla vista. Circondate ora occhietti e nasino con
un intrico inesplicabile ed unto di capelli, sopracciglia che, partendo
dalla metà della fronte, ricadono a ciuffi sugli occhi, barba che,
partendo dagli occhi, gira come una matassa di lana mal dipanata
a legare sopracciglia e capelli…
Così,
col cappello in mano, ginocchioni, si trascinò dinnanzi a me, sempre
fissandomi con gli occhietti da can barbone. Sembrava la statua
della desolazione, scolpita frettolosamente a larghe manate nel
fango della trincea. – Signor tenènt, ch’am guarda: sôn vei, mi
guardi, son vecchio, ho quattro figli, non posso, non posso andarci,
abbia compassione. A poes nen andèje!..Il sergente mi spiegò brevemente
la cosa, che del resto avevo già capìta: tirato a sorte per far
parte di una pattuglia pel taglio dei reticolati, Monsü Ghirba non
ne voleva sapere e da mezz’ora si trascinava così nel fango, implorando
e piagnucolando. E, lungo questa spiegazione, la voce lacrimosa
di Monsü Ghirba gocciolava di tanto in tanto ad approvare e spiegare:
-Ecco, pareil…si l’è vera…a pos nen andèje…a l’ai quarantacinc an…si
l’è vera…a l’ai quat fioci…ecco, sgnôr tenènt, chiel a capiss, pos
nen andèje…
Vi
confesso che Monsü Ghirba mi metteva in serio imbarazzo; lo vedevo
vecchio, avvilito, povera cosa umana non nata per essere eroe, pensava
ai suoi quattro figli e mi sembrava di scorgere i loro otto occhietti,
lustri come quelli del padre, seguirlo lacrimosi nella sua sortita
verso la morte…perché da un taglio di reticolati si può tornare,
si può, qualche volta, ma…D’altra parte gli altri soldati
avevano sentito: s’io lo lasciavo in trincea, addio alla mia autorità!
Chi mi avrebbe più obbedito? Mi decisi senz’altro. Dissi a Monsü
Ghirba: - Andiamo. Vengo anch’io – E poiché nuovamente si gettava
a braccia aperte nel fango, lo presi alle spalle e, tra me ed il
sergente, lo portammo di peso fuor dalla trincea, sacco inerte scosso
dai singhiozzi. Lo portammo così qualche metro. Non appena si fu
fuori dalla vista della nostra trincea, lo ficcai tra un cumulo
di sassi ed un cespuglio, dove non potevan scorgerlo nè i nostri
nè gli austriaci. – Stai lì e aspettaci –
Oh!
Gli occhi di Monsü Ghirba! Credo fosse quell’espressione, anzi,
quella muta benedizione che mi preservò quel giorno. Poiché il sergente
tornò con un braccio fracassato, mentre io non riportati se non
un buco nel cappello che, tenendomi aerata la testa, mi preservò,
da allora, dal mal di capo.
Quando
tornammo e fummo in trincea, mi ricordo che un soldato, battendo
sulla spalla a Monsü Ghirba, gli disse: - A tl’as vedü? A aveje
cörage, a succèd pa niente (Hai visto? Quando si ha coraggio non
succede nulla!). Monsü Ghirba si rizzò come se frustato. Sembrava
che i suoi occhietti, ora spalancati, dicessero: o sto rubando qualcosa.
Poi guardò me, guardò il sergente, che li vicino stava meditando,
e borbottò convinto: - A l’è vera! –
Monsü
Girba aveva nel plotone un caporale del suo paese. S’amavano come
fratelli. Francamente non comprendo come si potesse amare quel sacco
di peli e sporcizia, ma è così, e non posso falsare la storia. Un
giorno, che il caporale era sortito per prendere acqua o che so
io, fu freddato da una pallottola nel cranio, a poche decine di
metri dalla trincea. Per giorni e giorni il suo corpo stette li
dinnanzi a noi, senza che si potesse far nulla per ritirarlo e seppellirlo.
Non si poteva metter fuori il capo per guardarlo, che fioccavano
fucilate. Fioccavano anche sugli infermieri che, dopo aver sventolata
la bandiera crociata, si provavano ad uscire con la barella bene
in vista. E Monsü Ghirba piagnucolava dietro le feritoie, strappandosi
la barba: - Carlo! Carlo! Carlo! A ‘t ses mort! – Per tre giorni
non toccò cibo, lui che mangiava per dieci. Una mattina mi comparì
dinnanzi livido, con gli occhi spiritati, tanto fuor di sé ch’io
lo credetti, sulle prime, impazzito, ed inconsciamente la mano mi
correva alla rivoltella. Ma Monsü Ghirba non era impazzito. Mi disse
con voce irriconoscibile, rauca, tagliente: - C’ai dia ch’a l’ai
la ghirba, ma l’ai dco al coeur! (Dica loro che ho la pancia, ma
ho anche il cuore!)
E
prima che potessi tenerlo, era saltato fuori dalla trincea. Lo vidi
andare barcollando, ma dritto, quasi ingigantito. Corse sino al
corpo di Carlo, se lo caricò di peso sulle spalle, ritornò verso
di noi. Le pallottole che sino allora, Dio sa per quale miracolo,
l’avevano risparmiato, colpirono giusto nel segno. Ma ormai egli
era protetto, ed esse non poterono che straziare maggiormente il
corpo inerte dell’amico, mentre egli, sano e salvo, ripiombò in
trincea col prezioso fardello. Telefonai al più vicino Comando.
Dopo
neppure un’ora, mentr’egli terminava di seppellire il caporale,
potevo presentargli un foglio firmato di licenza speciale per premio.
Prese la licenza, la lesse lentamente, compilando, quasi sospettosamente,
poi m’afferrò le mani tentando di baciarmele. Non so se fosse il
puzzo della sua testa vicina a me, o la commozione…ma avevo un nodo
alla gola. Ritrassi le mani: Va, va a casa a baciare i bambini!
Baciali anche per me, e dì loro che hanno un papà come piace a me,
un soldato come si deve.
Questa
è la breve storia di “Monsü Ghirba”. Ma non si creda ch’io fossi
riuscito, in quattro e quattr’otto, a farne un eroe. Non so cosa
combinasse al suo paese. Mi disse poi un suo compaesano che gli
erano gonfiati, anzi, le sue testuali parole furono che “ si
era fatto gonfiare” i piedi come due palloncini. Fatto sta che
in trincea non ci tornò. Non era nato eroe. Che farci?
NOELQUI
Pubblicato,
compreso i disegni dell’autore, sul giornale associativo dell’A.N.A.
L’ALPINO n° 21 del 15 novembre 1926.
* Noël Quintavalle, in arte Noelqui, artista e scrittore
d’origine ferrarese, già ricordato nel sito ( apri
biografia )
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