Il
racconto, apparentemente fuori tema, si intreccia con la storia alpina
bolognese romagnola, essendo il mulo Pasubio, che parla per voce del
giornalista Cesco Tomaselli, testimone oculare di un evento storico
tragicamente legato al romagnolo Magg. Aldo Del Monte comandante del
1° Gruppo Artiglieria da Montagna Eritreo, reparto nel quale è in
forza il mulo Pasubio.
tratto dal libro di Cesco Tomaselli - Con le colonne
celeri dal Mareb allo Scioa - edito da Mondatori, Milano, dicembre
1936.
Capitolo
VIII - DALLE ALPI ALLE AMBE
L’altro
giorno, all’Istituto sierovagginogeno dell’Asmara, è morto Pasubio,
mulo dell’artiglieria alpina.
Invalido
di guerra, Pasubio è stato sacrificato alla scienza. Aveva quattordici
anni, era vigoroso e mansueto, non aveva mai sparato un calcio a chicchessia,
tollerava bonariamente che qualche conducente gli si attaccasse alla
coda, cosa proibitissima dal regolamento, sopportava i petardi delle
motociclette, non prendeva ombra di nulla e frangeva la biada con
una masticazione lenta e coscienziosa, che lasciava sfuggire dalle
mascelle un cro-cro regolare, simile al lavoro di una piccola
macina.
Era
partito dal deposito di Belluno in agosto insieme con altri complementi
destinati in Africa Orientale. “Aob, aob” – urlavano spesso
i soldati, allungando le sillabe fino a farne una esclamazione. Per
quanto il suono di questo dirotto gli risuonasse del tutto nuovo,
Pasubio non poteva metterlo in relazione con quella partenza. I conducenti
usano esprimersi in un gergo loro speciale, un po’ becero, che i muli
capiscono: ma quel suono, non l’aveva mai udito e ricorreva troppo
di frequente per essere una cosa che non dovesse riguardarlo affatto.
Pensò tuttavia che si trattasse di andare alle manovre sull’Appennino.
Ma
quando, dopo due notti e un giorno di carro ferroviario, fu condotto
sotto il piroscafo e annusò l’odore del mare, drizzò le orecchie,
s’impuntò, recalcitrò, si mise insomma a fare il mulo, secondo l’opinione
alquanto errata che noi nutriamo su questo animale.
Fu
l’unica volta in vita sua che tentò di far uso delle sua forza contro
coloro che se ne servivano. Fatica sprecata. In tre gli furono addosso
con urla e calci, e prima ancora che potesse rendersi conto si sentì
issare per la pancia e poi calar giù in un pozzo dalla bocca quadrata,
in fondo al quale, nel buio caldo e pieno di tanfo, udì risuonare
un tavolato sotto gli zoccoli. Terribili giorni di afa, di nausea,
nello scuotimento continuo di quello scatolone di legno, sempre al
buio. Di tanto in tanto degli uomini venivano ad annaffiarlo con una
pompa: era un’acqua trista, che non rinfrescava e lasciava nella lingua
un sapore di sale. Muso a muso con altri muli, Pasubio smaniava e
boccheggiava.
Ma
ecco che una mattina il pavimento non vibra più. La bocca de pozzo
si riapre. Cigolano catene. Pasubio è un’altra volta issato come un
secchio,descrive una parabola in aria, si abbassa, è a terra. Strana
sensazione di non essere all’aperto. L’aria è calda e umida, il cielo
biancastro pesa come un soffitto. Intorno ai muli si agitano uomini
dalla pelle scura, avvolti di scialli di un bianco sporco. Hanno il
timbro di voce sgradevole, parlano sempre come se dovessero di lì
a poco prendersi a coltellate. Finalmente gli ufficiali ordinano la
colonna e incomincia la marcia per una pianura giallognola, dove si
incontrano ogni tanto gruppi di uomini seminudi che badilano. Sono
gente nostrana, hanno lo stesso odore dei conducenti. Qualcuno grida
un saluto. E’ un saluto caro all’orecchio, che ricorda i tempi delle
escursioni estive delle Alpi. < Ciao, pais. >
Dopo
qualche ora spuntane delle colline. La strada prende a salire. Si
attraversano torrenti asciutti sui quali si vedono operai intenti
ad innalzare ponti. La colonna taglia per le scorciatoie, l’orizzonte
si stipa di montagne, l’aria rinfresca.
I
muli drizzano le orecchie come se sentissero odore di biada. E le
montagne si susseguono, sempre più alte. L’indomani verso sera la
colonna sbocca sull’altipiano. Tanto viaggiare per ritrovare delle
rocce e delle valli che da lontano somigliano alle nostre. Sopra un
paesetto con strade di città si vede un campanile di forma veneta:
l’Asmara. Infine, ecco il parco smistamento.
Il
parco di smistamento dei quadrupedi è situato nel mezzo un grande
tavoliere privo di alberi, dove l’erba è già fieno prima di essere
tagliata e la terra ha un colore rossiccio, come se fosse tritume
di mattone. Però, bisogna riconoscerlo, quel posto è un luogo di paradiso.
Biada ogni mattina, abbeverata ad una bella vasca di cemento, sempre
senza basto, solo mangiare e dormire. Ci sono delle noie; la tosatura
meccanica, per esempio, che sarebbe niente se non fosse preceduta
dall’applicazione di quell’atroce strumento che è il torcinaso.
In
tempo di guerra bisogna diffidare dei soggiorni comodi; è un po’ la
storia dei capponi sotto Natale. Una mattina si sentono i conducenti
vociare in maniera insolita; poco dopo tutti i muli del parco sono
in rango come alla rivista. Davanti a ciascuno un gruppo di ufficiali
sosta, discute, delibera. Aria di partenza. Infatti la sera partirono.
Era una colonna interminabile. Marciarono insieme per valli e montagne,
ogni tanto incrociando una strada dove gli autocarri si fermavano
per lasciarli passare. Il quinto giorno una parte della colonna prese
un’altra direzione e camminò finchè non fu fermata in una conca presso
un corso d’acqua (1), dove si vedevano altri muli in circolo. Era
sera, le alture rosseggiavano di fuochi, l’aria vibrava di un alto
vocio.
Pasubio
fu consegnato a un soldato che prese a chiamarlo bagalì: era
un essere lungo e secco, con in testa un tubo rosso da cui pendeva
un fiocco a frangia; per giunta, il suo volto era nero come il fondo
della greppia. L’indomani lo imbastarono e lo caricarono di quel peso
che aveva sempre portato in Italia: il pezzo da montagna. Era tornato
a fare il mulo d’artiglieria. Perché non avrebbe dovuto continuare
a farlo? Perché quel trattamento da cavallo di scuderia avrebbe dovuto
continuare all’infinito? Era nato mulo e la sua sorte era quella:
camminare con un quintale sul dorso, dormire in piedi legato ad un
anello e cacciar mosche con la coda.
E
vennero i triboli, tirate di otto, di dieci ore consecutive. Si saliva
per scendere e si scendeva per salire; sembrava che la vita non avesse
altro scopo. Per la forma, le montagne le montagne non differivano
da quelle su cui aveva tante volte sgropponato in Italia; ma appena
si graffiava la terra veniva fuori una polvere rossastra (qualche
volta era invece gialla) che faceva poltiglia con la saliva e suscitava
in gola un perpetuo stimolo di tosse. Per il povero mulo, costretto
sempre a camminare con il muso all’ingiù, quella polvere era un vero
martirio.
Nelle
soste annusava con prudenza i cespugli, perché non gli capitasse come
quella volta che, avendo addentato avidamente una frasca, si era sentito
trafiggere la lingua e il palato da una miriade di aghi. Fortuna che
ogni tanto si incontrava un corso d’acqua, e allora erano abbeverate
interminabili, a bocca libera, perché veniva dato l’ordine di togliere
il morso. Ma non sempre, all’arrivo, c’era la biada, e la notte, senza
coperta, era un tremare continuo.
I
muletti abissini, leggeri ed agili, pieni di belle movenze, e senza
ferro, con l’unghia nuda, andavano su per le ambe che parevano camosci.
Ma si davano troppe arie. Quando avevano in gruppo un ufficiale la
loro boria diventava odiosa.
Se
i muletti lo urtavano per un verso, i cammelli addirittura lo esasperavano.
Avevano quell’aria sempre mesta e scontenta delle persone lunatiche;
poi erano senza dignità. Si, sopra tutto, mancavano di dignità. Perché,
per esempio, tutto quel gemere, quel berciare, quel guaire quando
li caricavano, per poi lasciarsi legare per il muso e accettare quelle
condizioni di marcia umiliante, infilati a cinque a cinque, come forzati
alla catena? Pensare che erano così imponenti che quando si rizzavano
in piedi pareva che si sollevasse una montagna.
Alla
batteria aveva stretto amicizia con un compare, buona pasta di mulo,
ch’era in Colonia da marzo. Quando li mettevano vicini si facevano
confidenze.
Credi
tu – gli diceva l’altro – che quelli della mensa ufficiali stiano
meglio di noi? Oppure quelli della radio, che viaggiano con un ufficio
telegrafico sulla schiena? Chilo più, chilo meno, quando il carico
è ben fatto ogni cosa s’aggiusta camminando. Sapresti dirmi che cosa
noi non portiamo? Acqua, pane, cartucce, tende, cannoni, posta e telegrafo,
farmacia; questo te lo dico io, e tu mettici il resto.
A
poco a paco Pasubio aveva preso famigliarità col paese delle ambe.
Nei passaggi difficili gli altri muli stavano attenti dove Pasubio
poneva i piedi e la batteria andava su che pareva di veder salir un
treno coi suoi vagoncini. Era diventato il beniamino della batteria
…“Se tutti i muli fossero come Pasubio…” dicevano gli ufficiali, dandogli
con la mano dei colpetti amichevoli sul collo sudato; e il conducente
si appropriava quei complimenti come se il merito potesse essere diviso
in due parti.
Quel
giorno non ci fu biada al mattino. Il carico fu fatto ch’era ancora
buio e tutto il gruppo s’infilò per una mulattiera dove a stento si
passa per uno (2). A un tratto si udì il cannone. La prima batteria
aveva aperto il fuoco appena arrivata sulla cresta. La seconda deviò
a destra, prendendo di petto la montagna.
I
conducenti incalzavano, non davano tempo nemmeno di tirare il fiato.
Con un’ultima sgroppata Pasubio raggiunse la sommità. Soffiava vento,
l’aria era solcata da strani sibili. Di qua, di qua! Gridava un ufficiale.
Il conducente si mise a correre tirando la cavezza. In quel momento
Pasubio sentì una sassata al ginocchio. Fu un attimo, ma bastò perché
si trovasse con tutto il peso sbilanciato in fuori.
Rotolò
dibattendosi, trascinato da centoventi chili di carico attaccati al
dorso. - Certo è morto - dissero quelli che avevano assistito al volo.
Invece no. Si rimise in piedi da solo. Ma era tutto coperto di sangue.
Il
tenente veterinario giudicò che potesse salvarsi e lo fece condurre
all’infermeria di primo sgombro. Quivi lo sospinsero dentro la gabbia
di medicazione, gli applicarono il torcinaso, lo innaffiarono di soluzione
fenicata adoperando un bidone a pompa, lo impiastricciarono di una
pomata rossa per cui non poteva nemmeno leccarsi le piaghe. Dopo due
o tre giorni le ferite si chiusero, meno quella al ginocchio.
Allora
la sorte di Pasubio fu rapidamente decisa. Un mattino il conducente
bianco lo prese in consegna e a tappe se lo trascinò dietro fino all’Asmara.
Per via nessuno badava a lui; un mulo storpio non interessa. Ma all’Istituto
sierovaccinogeno udì i medici fare apprezzamenti lusinghieri sulla
sua complessione.
Non
si stava male presso i veterinari degli uomini. Il luogo era tranquillo,
appartato, pareva di essere in casa di un signore di campagna. Pasubio
aveva una bella stalla tutta per sé; ogni mattina usciva a pascolare
in un campo ricco di foraggio, dove si incontrava con altri muli e
cavalli malandati come lui, e il resto della giornata vagava solitario
per un cortile cinto da un muro bianco come un convento spagnolo.
Nessuno,
in apparenza, si occupava di lui, tranne lo stalliere, e perciò la
piaga al ginocchio andava sempre peggio. Ma un mattino avvertì l’ago
della siringa che gli penetrava nelle carni. Da quel momento uno strano
malessere si impadronì di lui. Perdette l’appetito, il sonno, persino
la voglia di sgranchire le gambe. Che cosa stavano combinando su quel
povero corpo? Gli riusciva strano pensare che quei personaggi vestiti
di un camice bianco tramassero qualche cosa contro di lui. Troppi
riguardi, è vero, e troppa libertà: ma Pasubio, che in fin dei conti
aveva fatto anche lui la sua guerra e toccata una palla in una zampa,
non si meritava un po’ di vacanza?
Di
lì a qualche giorno l’ago della siringa penetrò una seconda volta
nelle sue carni. Egli udì i medici che dicevano: - Se reagisce a questa
dose, avremo un prodotto eccellente….
Per
un po’ stette ad aspettare, curioso e con una certa trepidazione,
gli effetti di quel liquido che gli avevano introdotto. D’un tratto,
un gran caldo gli avvampò nel sangue e la testa gli si fece di fuoco.
Ardeva tutto, povero Pasubio, era come se fosse divorato dalle fiamme.
Con gli occhi dilatati, pieni di sofferenza, implorava acqua…Perché
non gliela portavano?
Macchè…Nessuno
si muoveva a pietà di lui, nemmeno il vecchio stalliere che l’aveva
sempre abbeverato. E i dottori, ch’erano accorsi, si occupavano delle
sue pupille febbricitanti, del suo tremito, dei suoi spasimi, con
una strana contentezza.
Te
lo dicevo io che era un soggetto eccezionale – esclamò uno. Reazione
imponente – sentenziò un altro, con gravità. Furono le ultime parole
ch’egli intese. Poi gli occhi gli si annebbiarono, e lentamente si
accasciò. In quella ebbe la sensazione, una sensazione indolore e
subcosciente, che gli asportassero qualche cosa dal cranio…
Così
morì Pasubio, mulo dell’artiglieria alpina. La sua vita era stata
esemplare. Essa sarà tramandata ai posteri in sobrie pagine il giorno
che anche i muli, le cui carcasse seminarono le strade della vittoria,
avranno il loro Plutarco.
* Mario
Gallotta, Capitano di Artiglieria da Montagna nella forza in congedo,
propone questo simpatico racconto che siamo certi sarà piacevolmente
gradito a tutti gli Artiglieri da Montagna.
Note:
Il
giornalista Cesco Tomaselli corrispondente del <Corriere della
Sera>, era al seguito della 2^ Divisione Eritrea, il primo reparto
che il 3 ottobre 1935 varca il fiume Mareb per iniziare la Campagna
d’Etiopia.
(1)
Il fiume è il Mareb, linea di confine fra l’Eritrea e l’Etiopia, il
suo attraversamento diventa di fatto l’inizio della guerra italo-etiopica.
(2)
La località è la stretta valle Sciogguà Sciogguì dove il 12 novembre
1935 avviene il primo scontro a fuoco con gli Etiopici nel corso del
quale rimane mortalmente ferito il comandante del 1° Gruppo Artiglieria
da Montagna Eritrea, il romagnolo Magg. Aldo Del Monte. vedi altre
notizie su Aldo Del Monte