rassegna stampa da L’ALPINO
periodico dell’Associazione Nazionale Alpini

Tenente Bosco Armando
*di Italo Gori

pubblicato il 1° agosto 2015
testo trascritto da Giuseppe Martelli
dalla propria collezione cartacea de L'ALPINO

l'articolo pubblicato sul giornale L'ALPINO del 25 febbraio 1923 comprende
il solo testo. Le fotografie sono state aggiunte per rendere più completa la pagina


Un giovane alto, biondo, piuttosto smilzo, un viso pallido, due occhi celesti che rispecchiavano tutta la dolcezza e la bontà dell'animo. Ogni suo atto, ogni moto, ogni parola erano impressi da una volontà profonda e tenace, da una forza che egli stesso s'era imposta, ed aveva temperata con una vita di sacrifici e di martirio.
Di sofferenza in sofferenza egli trascinò la sua croce con stoicismo ammirevole, sempre animato, nutrito dall'amore e dalla fede inestinguibile che gl'illuminava il volto di giovane cospiratore.
Era in lui la presenza e la figura del martire; sembrava sorto dal fondo d'un carcere del castello di Mantova o dello Spielgerg. Guglielmo Oberdan doveva avere lo stesso lampo di volontà, lo stesso sguardo luminoso. La semplicità traspariva in tutte le sue cose: era umile e parco di parole; solo sentiva con una concezione infinita e suprema tutto l'orgoglio di essere Italiano ed Alpino.
Si chiamava Armando Martellanz. Bosco era il nome di guerra. (0) Nacque a Trieste da genitori irredenti nel 1897. Fin da piccolo sentì innato l'odio contro l'usurpatore e già una idea di ribellione sorgeva in lui, già sentiva nascere in sè l'istinto della razza.
Instancabile assertore della fede italica predicò la sua passione con tutto l'impeto e l'entusiasmo della giovinezza. Scosse gl'ignavi e i dormienti e sollevò intorno a se un'onda di fede e di amore.

Allo scoppiare della guerra fra l'Austria e la Serbia, egli allore studente di liceo, era membro della socità segreta « La Giovane Trieste », dove si preparavano con ansia febbrile, con propaganda instancabile, armi e munizioni, giovani pieni di forza e di volere, pronti ad un cenno di rivolta. La polizia Austriaca che, timorosa, sorvegliava minutamente ogni mossa, ogni passo dei sospetti, venuta non so come a conoscenza di tutto, sventò il piano catturando bombe e fucili. Per un miracolo egli fu salvo. Di fronte al pericolo che incombeva giorno per giorno, il suo spirito non si sgomentò, la sua forza combattiva aumentava continuamente; ed alla sommità della passione v'era il sacrificio e l'olocausto.
Dal sangue dei martiri era sorto lo spauracchio della forca come ammonimento e ricordo. Ma il nemico, ignaro di ciò che compiva, non sapeva di aumentare l'ardore e l'odio, la volontà di riuscire e la passione indomabile. Intanto l'opera di propaganda proseguiva ancor più febbrilmente; di nuovo una folta schiera di giovani s'erano raccolti, pronti ad insorgere; già si parlava di far saltare il palazzo del Podestà, quando giunse la notizia inaspettata che l'Italia aveva dichiarata la guerra.
Fu intesificata l'opera di propaganda, si stabilirono piani su piani per un tentativo di fuga, per sfuggire all'artiglio nemico e varcare l'iniquo confine. Armando visse giornate indimenticabili di passione; un pensiero insostenibile lo tormentava; l'impossibilità di riuscire e maggiormente il timore di essere arruolato nell'esercito austriaco. Pur tuttavia egli sperava; la sua fede l'avrebbe illuminato, il suo coraggio avrebbe sfidato il pericolo. Ma il destino volle che la sua anima d'Italiano e di combattente fosse messa a dura prova, volle preparagli una via aspra che doveva aspergere del suo sangue a goccia a goccia, stilla per stilla.
Con l'angoscia e la disperazione nel cuore, fu costretto indossare la divisa austriaca. Nell'incalzare degli eventi egli non smarrì il suo coraggio. Aveva giurato di donarsi intieramente all'Italia, di offrire tutto se spesso alla Patria, ed una notte, con pochi volontari, guidato dalla passione e dall'amore inestinguibile, tentò di varcare la frontiera. Ma quando stava per gettarsi nelle braccia dei fratelli, prima di porre il piede sul suolo sacro della Patria, a Cormons fu arrestato. Rinchiuso insieme ai suoi compagni nelle carceri di San Giusto, dopo un mese di sofferenze, d'umiliazioni, di maltrattamenti, il governo di Francesco Giuseppe gli decretò la sentenza di morte.
Impassibile ascoltò l'ordine dell'Imperatore che l'innalzava al supremo sacrificio, che gli assegnava un posto a fianco dei martiri morti serenamente sulla forca. La sentenza doveva essere eseguita in capo ad un certo tempo; ed intanto fu inviato con altri disertori in un campo di concentramento, ove gli fu nuovamente imposto di vestire l'odiata divisa. Agli si ribellò; tentò un atto di rivolta; ma nulla valse. Con la forza fu costretto ubbidire. Intanto un ordine improvviso lo inviava in una città Ungherese a compiere il corso ufficiali. Uscito col grado di cadetto, liberato dalla morte gloriosa, egli sperava ancora.
Trasferito alla fronte russa insieme ad altri compagni irredenti, comprese che era giunto il momento opportuno di tentare il colpo, di raggiungere lo scopo che doveva condurlo o vivo o morto fuori dalle linee austriache, in un luogo di salvezza. Dopo aver raccolto documenti e dati importantissimi sulle posizioni nemiche, con trecento compagni di fede tentò la sorte. Colto fra due nutriti fuochi di fucileria, ferito alla gamba destra, con settantadue superstiti, raggiunse la linea russa. Sottoposto ad un lungo interrogatorio espose tutti i suoi piani, indicò minutamente le posizioni fortificate del nemico, ne rivelò la forza ed il numero, ed infine come compenso pregò di essere inviato coi compagni in Italia. Gli fu concesso.
Ed intanto l'artiglieria iniziato efficacemente il suo tiro, aprì un varco alle truppe d'assalto che in quel giorno riportarono una strepitosa vittoria.

L'odissea del giovane triestino fu piena di nuovi pericoli, di nuovi dolori. PIù volte egli sfiorò l'orlo del sepolcro, più volte sentì sul volto il soffio della morte. Attraverso le steppe sconfinate, attraverso la Siberia gelata, soffrì la fame ed il freddo. Richiuso in un carro bestiami con altri ammalati e feriti, in mezzo al letame, fra quelle povere carni, marcite, scoppiata l'epidemia colerica, s'ammalò del morbo crudele. Lo tenne in vita il pensiero della Patria; ed ancora convalescente volle continuare il viaggio. Giunto in Inghilterra, ed attraversatala in pochi giorni, s'imbarcò per la Francia. Nella Manica un sottomarino germanico lanciò contro l'imbarcazione un siluro che colpì il timone. Raggiunta a stento la costa francese, furono accolti con entusiasmo e venne messo a loro disposizione un treno speciale, in pochi secondi toccarono il suolo della Patria.
Giunto in Italia, con religioso e profondo orgoglio si fece Alpino, poichè questo era il sogno della sua vita, poichè in lui la montagna esercitava un fascino, un'attrazione direi quasi spirituale, essendo lassù l'anima raccolta più vicina a Dio, essendo tutti uniti in un vincolo che affratella, in una parola, che porta lo stesso nome dei monti, dei fiumi e della valli; onore e vanto dei gloriosi reggimenti, nostro intimo orgoglio, il di cui ricordo ora che siam lontani c'inebria lo spirito e ci rende più buoni.
Lassù egli portò la sua fede, lassù egli visse per l'Iitalia e per i suoi Alpini. Ovunque il bisogno stringeva egli era sempre al suo posto, animatore instancabile, esempio d'ardimento e di valore. Dal deposito del 3° inviato come soldato semplice sul Trentino, si distinse in più azioni tanto che fu proposto per la medaglia al valore. Obbligato a frequentare il corso di Modena, ed uscitone col grado d'aspirante, fu assegnato al 4°. Ma una disposizione ministeriale che obbligava gli irredenti a rimaner lontani dalla prima linea, lo fermò ad Ivrea. Più e più volte egli pregò di ritornare in trincea, più e più volte protestò ostinato nella sua volontà. Ma ogni preghiera, ogni protesta fu vana.


arrivo di salmerie e truppe sul Grappa


Intanto sull'Italia s'addensava un nembo oscuro che la piombava nel dolore e nelle tenebre. Erano le tragiche giornate di Caporetto, la ritirata fino al Piave. Abituato alle spietate vicende del destino, ai contrasti della vita, egli non dispera, non teme. L'Italia che durante le calamità ha sempre ritrovato lo spirito antico, saprà superare la crisi, arrestare con tutte le sue forze per solo volere dei suoi figli, l'avanzarsi incalzante del nemico. Così egli pensava e solo si rammaricava di non essere coi suoi Alpini ad arginare la fiumana austriaca, che dai monti si riversava impetuosamente sul suolo della Patria.

Le gesta leggendarie dei battaglioni Feltre, Cismon, Pavione, Valmaira, Valcamonica, Val Cenischia. M.te Arvenis, Cividale che durante l'epiche e cruente giornate del dicembre sul massiccio insanguinato del Grappa, opponevano una fiera resistenza, gli riempivano l'animo d'entusiasmo e di speranza. Lassù lo chiamavano i compagni, lassù lo chiamava l'animo di Guido Corsi (a) erto ancora sul muricciolo di sassi, coi piedi nel sangue, fermato nel gesto sublime che eterò il piccolo Balilla nella storia.


cartolina postale della 252ª compagnia

Ed egli partì. Il 19 dicembre giunse sul Valderoa sconvolto, sul Valderoa che aveva visto la tenace resistenza degli Alpini. Venne assegnato alla 252ª compagnia del battaglione Valcamonica. Sempre il primo nei pericoli, si guadagnò la stima dei superiori e dei compagni. Esempio d'ardimento e di valore, seppe dei suoi uomini farne una cosa sola, una forza unica animata dall'entusiasmo e da un senso superiore del dovere. Il 9 febbraio 1918 durante un furioso attacco in cui rifulse tutto il suo coraggio e l'ardimento, alla testa dei suoi Alpini, ferito da una scheggia di bomba alla guancia, da un colpo di baionetta al braccio destro, trapassata la gamba sinistra da una pallottola, rimase al suo posto seguitando ad incitare con la voce e l'esempio i suoi uomini. Solo quando l'attacco nemico fu respinto, si lasciò trasportare al posto di medicazione e di lì passò all'ospedaletto da campo, fu portato a Padova, a Milano ed infine all'ospedale S. Agata di Firenze.

Ma nel silenzio doloroso della corsìa, nel suo lettuccio bianco, egli sentiva insieme allo strazio delle povere carni la nostalgia della trincea, un desiderio irrefrenabile di riprendere le armi e combattere. Ad un suo ex soldato, ferito durante le giornate del dicembre sul Grappa scriveva:
« Grazie a Dio vado migliorando. Tu mi chiedi che cosa feci? In piccola parte appena il mio dovere. Il sangue che io versai è ben poca cosa in confronto di quello che l'Italia nostra fece e fa per me e per i miei concittadini. Quand'anche avessi sacrificato la mia vita tutta per il grande ideale, non sarebbe se non un piccolo tributo che noi irredenti dobbiamo pagare all'Italia liberatrice. Ad ogni modo ho fiducia nel Signore che fra non molto potrò ritornare lassù dove si combatte ardenti d'entusiasmo per il sacro ideale della grandezza dell'Italia nostra. Purtroppo la mia ferita alla gamba sinistra, pur essendo in via di guarigione, mi produce ancora atroci dolori, ma ciò non m'esclude però, che in breve potrò raggiungere il posto che a me più che ad ogni altro, spetta in trincea. »


baraccamenti italiani a Cima Cadi

A Cima Cadi il 19 luglio, ferito gravemente da schegge di bomba in varie parti del corpo, con la gamba destra orribilmente massacrata, di ospedale in ospedale, fra la vita e la morte, sopportò il suo dolore con una rassegnazione, con uno stoicismo veramente spartano. Fiere parole che rispecchiano tutta l'umiltà di un vero grande Alpino.
Appena fu in grado di camminare, con le ferite non ancora del tutto rimarginate, ottenne di essere inviato in linea. Raggiunto il suo vecchio battaglione sui ghiacciai dell'Adamello, con una sezione mitragliatrici d'assalto, nel maggio prese parte all'azione dei Monticelli insieme ai battaglioni Monte Mandrone, Cavento, Edolo, Monte Granero e Pallanza. Ma il destino che con lui fu spietato, volle serbagli una morte lenta che lo spense a poco a poco nella sua Trieste, nella città del suo sogno e della sua passione.


una corsia dell'ospedale di Trieste con i feriti

L'ultima volta che lo vidi fu all'ospedale territoriale di Modena. Supino sul suo letto di strazio, arso dalla febbre che lo divorava, non aveva più l'aspetto umano, non era se non uno scheletro fasciato di carne, un cadavere in dissolvimento. Nel silenzio della camera piena dell'odore nauseante che si sente stando vicino ai morti, udivo come una tortura, come un martirio, lo stridore dei denti, ed ogni tanto un rantolo lieve che m'acchiacciava. Quando mi accostai al letto e lo fissai angosciosamente come per dire una parola che il pianto mi soffocava, alla sommità del suo strazio apparve un sorriso macabro, vidi le sue labbra muoversi e mormorare:
- Bravo, hai fatto bene a venirmi a trovare; t'attendevo. -


Non ricordo quel che dissi; solo so che quando giunse la suora, io ero in ginocchio ai piedi del suo letto. La fibra d'acciaio parve superare la crisi; trasferito all'ospedale di Trieste, che per la prima volta dopo tanto soffrire, dopo tanti sacrifici, rivedeva finalmente italiana, ebbe la gioia immensa di riabbracciare la mamma che fu sempre il pensiero assiduo e tenace dei suoi giorni di passione.
Poi dopo un lungo anno di lotta alternata con la morte, spentasi serenamente sua madre che anch'essa aveva troppo sofferto, non reggendo a quest'ultimo dolore, la seguì poco dopo nella tomba.
Morì come visse; in una luce mistica di bontà, di fede e di amore.

ITALO GORI

 

 


 

 


(0) Armando Martellanz (Bosco) di Luigi nato a Trieste il 21 ottobre 1897. Laureato in giurisprudenza. Disertò l'esercito austriaco passando in Russia. Ritornò in Italia nel gennaio 1917 e si arruolò nel 4° Rgt Alpini con il nome di guerra di Armando Bosco. Nominato sottotenente e assegnato al 5° Rgt. Alpini, Battaglione "Valcamonica". Ferito sul Grappa nel gennaio 1918 e a Cima Cadi il 19 luglio 1918 per la quale gli fu amputata una gamba. Visse tra ospedali e sanatori fino al 1927. I mutilati di Trieste lo ebbero come presidente della loro Associazione. Morì il 16 marzo 1927 all'Ospedale di Trieste.

(a) Guido Corsi, anche lui triestino, medaglia d'Oro al valor militare "alla memoria", già ricordato in questo sito con link alla pagina : m.o. corsi guido


*Italo Gori, nasce il 17 giugno 1898 nella Repubblica di San Marino, da genitori originari di San Mauro di Romagna (poi San Mauro Pascoli n.d.r.). Il padre Giuseppe si era trasferito nel 1889 a San Marino per aver ottenuto la cattedra di insegnante nel Ginnasio Governativo e nel 1897 si sposa con Tina Vacchi. Volontario nel Regio Esercito Italiano negli alpini, Caporale del "Feltre" decorato di medaglia di bronzo nell'azione a Cima Valderoa del dicembre 1917. Nel settembre 1918 è inviato al corso ufficiali presso la scuola militare di Modena ed il 12 gennaio 1919 viene promosso al grado di Sottotenente sempre del "Feltre". Mandato in congedo nel 1920 rientra a casa. Con la nascita a Milano dell'Associazione Nazionale Alpini nel luglio 1919 è fra i primi ad iscriversi come socio. (La Sezione bolognese romagnola nascerà nel novembre 1922). Sappiamo che ha partecipato come volontario con Gabriele D'Annunzio all'impresa di Fiume e che D'Annunzio, del quale era Aiutante di Campo, lo soprannominò "San Marino". Con la nascita della Sezione vi trasferisce l'iscrizione (era iscitto a Milano sede nazionale) come confermato da un ritrovato vecchio tabulato soci del 1924 della Sezione. Nel 1924 si laurea in Giurisprudenza, ma non ho trovato notizia documentata in quale Università. Nuovamente volontario nella seconda guerra mondiale partecipa alla campagna di Russia come Tenente, avendo avuto l'avanzamenti di grado nel 1930 in quanto "trasferito in Italia" in Provincia di Macerata poi trasferito a Rimini nel 1940. A Rimini dove svolge la professione di avvocato, è stato anche Capogruppo del Gruppo di Rimini dal 1958 fino al 1987, anno in cui lascia la guida per motivi di salute e di età; muore tre anni dopo nel 1990 con il grado di Maggiore degli alpini ed è sepolto per sue volontà nel cimitero di Montalto a San Marino. Dopo attuali ricerche e le notizie cortesemente concesse dalla (1) Biblioteca di Sato di San Marino, va precisato che, come il padre, Italo Gori era solo residente a San Marino e non è mai stato cittadino sammarinese ed il suo nome non compre fra i cittadini sammarinesi volontari "alpini", mentre in elenco vi sono Fattori Marino, Giuliano Gozi e Sadj Serafini. Infatti il padre aveva mantenuto la cittadinanza italiana ed era stato nominato Regio Console di Sua Maestà il Re d'Italia in San Marino.
Ho un chiaro ricordo di lui avendolo conosciuto e frequentato per molti anni, io giovane consigliere sezionale e lui maturo capogruppo. Spesso, in occasione delle periodiche riunioni mi raccomandava di "continuare a far vivere ciò che loro, fondatori dell'Ass. Naz. Alpini, avevano creato; la grande famiglia alpina" .


note :
(1) Desidero qui ringraziare la dott.ssa Claudia Malpeli della Biblioteca di Stato di San Marino per le preziosi, documentate notizie biografiche di Giuseppe Gori, che mi hanno permesso di aggiornare la biografia di Italo Gori.