Disgraziato,
son nato, disgraziato sino al limite al di là del quale non si può
nascere che morti.
Intanto,
lo confido solo a voi e vi prego di non strombazzarlo ai quattro
venti, ho gli occhi disuguali. E se aver l’occhio destro più grande
del sinistro e nulla, perfettamente nulla, voi comprenderete benissimo
che aver l’occhio sinistro più piccolo del destro è atroce; tanto
atroce da far desiderare la morte ogni qual volta ci si trovi dinanzi
ad uno specchio. E poi non v’è cosa, nella mia vita, che sia colata
perfettamente liscia. Ogni mio bicchiere d’acqua ha avuto la sua
brava tempesta.
Ricordo,
per esempio, che alla visita di leva il capitano medico mi chiese
che arma preferissi. – Corazziere – risposi io senza batter ciglio.
Si, signori, corazziere. Era il mio sogno costante, da appena nato
ai vent’anni. Corazziere: chioma sull’elmo, bottoni lustri nel doppio
petto teso torace nerboruto, stivali alla scudiera, un cavallo baio
che caracolla al lato di Sua Maestà il Re.
Ah,
saccorotto! Corazziere, coraz…Il capitano medico mi fissava pensoso,
lisciandosi il mento; finalmente benevole, mi disse: - Allora faccia
una cosa: si appicchi – Eh??. Vi confesso che tale risposta non
me l’aspettavo e mi suonava male all’orecchio. Credo anzi che in
quel momento il mio occhio sinistro per la sorpresa, fosse spalancato
come il destro tal quale. – Ma si, si appicchi – continuava lui
– così le si allungherà il collo e ne riparleremo per la statura
da corazziere.
Capperi,
non avevo pensato che mi mancavano giusto trentasette centimetri
e mezzo alla statura giusta! Non importa. Non fui un grande corazziere,
ma fui un grande alpino. Non alto, intendiamoci. Grande. E non dico
altro.
La
prima cosa che feci, partendo per la guerra, fu di comprare un notes.
Trenta centesimi. E una matita. Dieci centesimi. Prezzi d’anteguerra.
Adesso fortunatamente non ne ho più bisogno, altrimenti dovrei spendere
cinquanta lire che non ho. Ma allora mi erano imperiosamente necessari
per scrivere il mio diario di guerra. Infatti da qualche mese avevo
scoperto d’essere scrittore nato. Avevo anzi già trattato con vari
editori. Veramente loro m’avevano trattato piuttosto male, dopo
letti i miei manoscritti, ma tant’è, trattato assieme avevano.
Scrissi
dunque il diario: due pagine al giorno. Allora, già, non sospettavo
che la guerra durasse quattro anni; se l’avessi sospettato avrei
calcolato di dover scrivere varie migliaia di pagine e, oltre alla
fatica materiale di portare nel sacco una tale montagna di carta
manoscritta, non avrei potuto reggere alla spesa di tanti notes
e matite. Per un mese scrissi due pagine al giorno. Mi seccava però
di non aver lettori; non potevo così giudicare dell’effetto. Mi
provai una notte, nel silenzio della trincea, a declamare forte
alcune pagine; ma una scarpa di Rusconi mi arrivò sulla candela,
sommergendoci nel buio. Io, gentilmente, osservai a Rusconi che
delle sue scarpe non avevo bisogno ma lui, meno gentilmente, mi
ribattè che aveva sonno e che neppur lui aveva bisogno delle mie
elucubrazioni cavernose. Non so perché cavernose, poi. Può
darsi che quella notte io fossi raffreddato ma ad ogni modo giudicai
che Rusconi, mio vicino di giaciglio, non era nato per la letteratura,
e non gli lessi più nulla. Peggio per lui.
Un’idea
sublime mi colse allora. L’effetto della letteratura è più visibile
negli umili, non ottenebrati da pregiudizi statistici, che non hanno
definizioni sintetiche e disgustanti come “elucubrazioni cavernose”.
E, giornalmente, lessi il mio diario a Cranio. Si Cranio
il mio attendente, il buon torello biondo di cui ho già parlato.
Rannicchiati vicino, in qualche buca fuori portata dalle scarpe
di Rusconi, io mi entusiasmavo leggendo, e lui ascoltando. Veramente
le sue lodi erano poche, essendo egli di carattere taciturno, e
per di più stentai non poco a fargli entrare in zucca la necessità
di un diario. Ma tant’è la vedevo nei suoi occhietti tondi, l’ammirazione
sconfinata. Infame, infame Cranio.
Gli
stavo leggendo la descrizione di un assalto; lo vidi tutto bagnato.
Di lacrime, intendiamoci. Piangeva! Fu tale la mia commozione che
per poco non lo abbracciavo; era dunque un capolavoro, il mio diario?
– Ti piace, di? – gli chiesi. Egli non rispose. Strano a dirsi,
si dimenava, gonfiava le gote, masticava come avesse la bocca piena.
Sicchè non resse più: voltandosi dall’altra, congestionato, sputò
sangue. Già sputò sangue. Questo poi non poteva essere effetto del
mio diario. Lo scossi amichevolmente, battendogli sulle spalle.
– E’ da tanto che…che stai male? Domani ti faccio visitare e torni
a casa. Va bene? Così ti curi –.
Strano
come si confondeva quell’animale. Si torceva letteralmente mentr’io
parlavo, arrossiva guardando via, balbettava. Sicchè mi confessò
tutto, l’infame: per stare sveglio mentr’io leggevo aveva preso
l’abitudine di darsi pizzicotti e mordersi la lingua. Mezzo intontito
dal sonno, ad un mio scoppio di voce, si credette scoperto a sonnecchiare,
dette alla lingua un morso troppo forte….Eccole le lacrime. Eccolo
lo sbocco di sangue, animale!
Mi
successe di peggio.
Pochi
giorni dopo persi il diario; non so come, ma non lo trovai più.
Fu inutile piangere e darsi pugni in testa, senza contare che avevo
l’elmo e mi ammaccavo le mani. Il diario era perso. E per mesi non
ne seppi più nulla. Fu a Milano, mentr’ero in licenza per ferite.
Trovai un giorno Buffoni, anche lui in licenza. Mi disse: - Ho qualcosa
di tuo, trovato in una trincea abbandonata. Te lo porterò – Me lo
portò: il mio diario. Fu tale il mio delirio di gioia che poco ricordo.
Sentivo e vedevo doppio. Credo d’aver domandato a Buffoni se l’avesse
letto, e le sue impressioni come dico non ricordo bene, ma può darsi
mi rispondesse che la sua impressione era che quando sono troppo
commosso sputo parlando. Credo, non giuro.
Il
giorno dopo ero da un editore: gli offersi il manoscritto. Il giorno
dopo ancora il manoscritto era da me. E l’editore non mi offriva
nulla. Anzi, se non sbaglio, mi consigliava di studiare assai grammatica
e sintassi. Montai in furore pazzo. Non potendo strappare la barba
dell’invisibile editore, strappai il manoscritto, lo feci a brani,
lo sputacchiai scaraventandolo nel cestino.
Proprio
l’indomani mattina mi giungeva un’altra lettera dell’editore “Ci
ho pensato meglio. Si può correggere. Ed essendo d’attualità posso
arrischiarmi a pubblicare il suo scritto. Me lo faccia tenere…”.
Pubblicare.
Pubblicare io, capite? Se non ammattii allora, di gioia e dolore,
non mi succederà certo più di ammattire. Ero grande, pardon. Avrei
potuto esser grande ed il manoscritto, fonte della mia gloria, giaceva
in minutissimi pezzi. A corpo morto mi gettai nel cestino. Un giorno
ed una notte lavorai ad incollare…Nulla! Mancavano pezzi e pezzi.
Forse, chi sa? Me li ero mangiati nell’accesso di rabbia. E poi
i pezzi rimasti non combaciavano…La mia opera era irrimediabilmente
distrutta. Era la serie delle mie disgrazie che continuava. Il destino
mi lasciava fabbricare i miei castelli di carta per soffiarli via
ogni volta. Ero stanco. Decisi di uccidermi. Si, uccidermi l’indomani
al tramonto, dopo aver preparato un adeguato testamento. Al tramonto
ora dello sconforto e della nostalgia… All’indomani, prima del tramonto,
conobbi però Ninetta. E non mi uccisi. Anzi al tramonto ero con
lei in una trattoria di Porta Romana.
Ah,
Ninetta, piccolo fiore colto dalle mie mani… Un momento, qui entriamo
in un ordine di idee affatto personale e credo inutile farvene parte.
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