rassegna stampa da L’ALPINO

periodico dell’Associazione Nazionale Alpini

Il romanzo di un giovane alpino povero
di Noël Quintavalle *

pubblicato il 1° novembre 2010
testo trascritto da Giuseppe Martelli
dalla propria collezione cartacea de L'ALPINO

 

Disgraziato, son nato, disgraziato sino al limite al di là del quale non si può nascere che morti.

Intanto, lo confido solo a voi e vi prego di non strombazzarlo ai quattro venti, ho gli occhi disuguali. E se aver l’occhio destro più grande del sinistro e nulla, perfettamente nulla, voi comprenderete benissimo che aver l’occhio sinistro più piccolo del destro è atroce; tanto atroce da far desiderare la morte ogni qual volta ci si trovi dinanzi ad uno specchio. E poi non v’è cosa, nella mia vita, che sia colata perfettamente liscia. Ogni mio bicchiere d’acqua ha avuto la sua brava tempesta.

Ricordo, per esempio, che alla visita di leva il capitano medico mi chiese che arma preferissi. – Corazziere – risposi io senza batter ciglio. Si, signori, corazziere. Era il mio sogno costante, da appena nato ai vent’anni. Corazziere: chioma sull’elmo, bottoni lustri nel doppio petto teso torace nerboruto, stivali alla scudiera, un cavallo baio che caracolla al lato di Sua Maestà il Re.

Ah, saccorotto! Corazziere, coraz…Il capitano medico mi fissava pensoso, lisciandosi il mento; finalmente benevole, mi disse: - Allora faccia una cosa: si appicchi – Eh??. Vi confesso che tale risposta non me l’aspettavo e mi suonava male all’orecchio. Credo anzi che in quel momento il mio occhio sinistro per la sorpresa, fosse spalancato come il destro tal quale. – Ma si, si appicchi – continuava lui – così le si allungherà il collo e ne riparleremo per la statura da corazziere.

Capperi, non avevo pensato che mi mancavano giusto trentasette centimetri e mezzo alla statura giusta! Non importa. Non fui un grande corazziere, ma fui un grande alpino. Non alto, intendiamoci. Grande. E non dico altro.

La prima cosa che feci, partendo per la guerra, fu di comprare un notes. Trenta centesimi. E una matita. Dieci centesimi. Prezzi d’anteguerra. Adesso fortunatamente non ne ho più bisogno, altrimenti dovrei spendere cinquanta lire che non ho. Ma allora mi erano imperiosamente necessari per scrivere il mio diario di guerra. Infatti da qualche mese avevo scoperto d’essere scrittore nato. Avevo anzi già trattato con vari editori. Veramente loro m’avevano trattato piuttosto male, dopo letti i miei manoscritti, ma tant’è, trattato assieme avevano.

Scrissi dunque il diario: due pagine al giorno. Allora, già, non sospettavo che la guerra durasse quattro anni; se l’avessi sospettato avrei calcolato di dover scrivere varie migliaia di pagine e, oltre alla fatica materiale di portare nel sacco una tale montagna di carta manoscritta, non avrei potuto reggere alla spesa di tanti notes e matite. Per un mese scrissi due pagine al giorno. Mi seccava però di non aver lettori; non potevo così giudicare dell’effetto. Mi provai una notte, nel silenzio della trincea, a declamare forte alcune pagine; ma una scarpa di Rusconi mi arrivò sulla candela, sommergendoci nel buio. Io, gentilmente, osservai a Rusconi che delle sue scarpe non avevo bisogno ma lui, meno gentilmente, mi ribattè che aveva sonno e che neppur lui aveva bisogno delle mie elucubrazioni cavernose. Non so perché cavernose, poi. Può darsi che quella notte io fossi raffreddato ma ad ogni modo giudicai che Rusconi, mio vicino di giaciglio, non era nato per la letteratura, e non gli lessi più nulla. Peggio per lui.

Un’idea sublime mi colse allora. L’effetto della letteratura è più visibile negli umili, non ottenebrati da pregiudizi statistici, che non hanno definizioni sintetiche e disgustanti come “elucubrazioni cavernose”. E, giornalmente, lessi il mio diario a Cranio. Si Cranio il mio attendente, il buon torello biondo di cui ho già parlato. Rannicchiati vicino, in qualche buca fuori portata dalle scarpe di Rusconi, io mi entusiasmavo leggendo, e lui ascoltando. Veramente le sue lodi erano poche, essendo egli di carattere taciturno, e per di più stentai non poco a fargli entrare in zucca la necessità di un diario. Ma tant’è la vedevo nei suoi occhietti tondi, l’ammirazione sconfinata. Infame, infame Cranio.

Gli stavo leggendo la descrizione di un assalto; lo vidi tutto bagnato. Di lacrime, intendiamoci. Piangeva! Fu tale la mia commozione che per poco non lo abbracciavo; era dunque un capolavoro, il mio diario? – Ti piace, di? – gli chiesi. Egli non rispose. Strano a dirsi, si dimenava, gonfiava le gote, masticava come avesse la bocca piena. Sicchè non resse più: voltandosi dall’altra, congestionato, sputò sangue. Già sputò sangue. Questo poi non poteva essere effetto del mio diario. Lo scossi amichevolmente, battendogli sulle spalle. – E’ da tanto che…che stai male? Domani ti faccio visitare e torni a casa. Va bene? Così ti curi –.

Strano come si confondeva quell’animale. Si torceva letteralmente mentr’io parlavo, arrossiva guardando via, balbettava. Sicchè mi confessò tutto, l’infame: per stare sveglio mentr’io leggevo aveva preso l’abitudine di darsi pizzicotti e mordersi la lingua. Mezzo intontito dal sonno, ad un mio scoppio di voce, si credette scoperto a sonnecchiare, dette alla lingua un morso troppo forte….Eccole le lacrime. Eccolo lo sbocco di sangue, animale!

Mi successe di peggio.

Pochi giorni dopo persi il diario; non so come, ma non lo trovai più. Fu inutile piangere e darsi pugni in testa, senza contare che avevo l’elmo e mi ammaccavo le mani. Il diario era perso. E per mesi non ne seppi più nulla. Fu a Milano, mentr’ero in licenza per ferite. Trovai un giorno Buffoni, anche lui in licenza. Mi disse: - Ho qualcosa di tuo, trovato in una trincea abbandonata. Te lo porterò – Me lo portò: il mio diario. Fu tale il mio delirio di gioia che poco ricordo. Sentivo e vedevo doppio. Credo d’aver domandato a Buffoni se l’avesse letto, e le sue impressioni come dico non ricordo bene, ma può darsi mi rispondesse che la sua impressione era che quando sono troppo commosso sputo parlando. Credo, non giuro.

Il giorno dopo ero da un editore: gli offersi il manoscritto. Il giorno dopo ancora il manoscritto era da me. E l’editore non mi offriva nulla. Anzi, se non sbaglio, mi consigliava di studiare assai grammatica e sintassi. Montai in furore pazzo. Non potendo strappare la barba dell’invisibile editore, strappai il manoscritto, lo feci a brani, lo sputacchiai scaraventandolo nel cestino.

Proprio l’indomani mattina mi giungeva un’altra lettera dell’editore “Ci ho pensato meglio. Si può correggere. Ed essendo d’attualità posso arrischiarmi a pubblicare il suo scritto. Me lo faccia tenere…”.

Pubblicare. Pubblicare io, capite? Se non ammattii allora, di gioia e dolore, non mi succederà certo più di ammattire. Ero grande, pardon. Avrei potuto esser grande ed il manoscritto, fonte della mia gloria, giaceva in minutissimi pezzi. A corpo morto mi gettai nel cestino. Un giorno ed una notte lavorai ad incollare…Nulla! Mancavano pezzi e pezzi. Forse, chi sa? Me li ero mangiati nell’accesso di rabbia. E poi i pezzi rimasti non combaciavano…La mia opera era irrimediabilmente distrutta. Era la serie delle mie disgrazie che continuava. Il destino mi lasciava fabbricare i miei castelli di carta per soffiarli via ogni volta. Ero stanco. Decisi di uccidermi. Si, uccidermi l’indomani al tramonto, dopo aver preparato un adeguato testamento. Al tramonto ora dello sconforto e della nostalgia… All’indomani, prima del tramonto, conobbi però Ninetta. E non mi uccisi. Anzi al tramonto ero con lei in una trattoria di Porta Romana.

Ah, Ninetta, piccolo fiore colto dalle mie mani… Un momento, qui entriamo in un ordine di idee affatto personale e credo inutile farvene parte.

NOELQUI

 


Pubblicato, compresi i disegni dell’autore, sul giornale associativo dell’A.N.A. L’ALPINO n° 16 del 15 agosto 1925

* Noël Quintavalle, in arte Noelqui, artista e scrittore d’origine ferrarese, già ricordato nel sito ( apri biografia )