rassegna stampa da L’ALPINO
periodico dell’Associazione Nazionale Alpini
SLANDRÔN
di Noël Quintavalle *
pubblicato il 1° novembre 2010
testo trascritto da Giuseppe Martelli
dalla propria collezione cartacea de L'ALPINO
Era
stato, prima negli “sconci”. Quattro mesi ci aveva vissuto e con
una sola creatura, in quattro mesi, s’era fatto amico; con il suo
mulo. Sporco al di là dell’immaginazione, senza bottoni, capelli
ignari dell’esistenza del pettine, barba intonsa, d’un dito. Per
parlare biasciava. E dappertutto dove lui era stato lo si sapeva
dall’odore e dalla scia di sputi neri, chè “ciccava” da mattina
a sera e da sera a mattina. Forse da quando era nato, ciccava. I
denti doveva averli neri come tabacco: ma i denti suoi nessuno li
aveva mai visti, chè i denti si vedono solo a chi ride. Lo battezzarono
“Slandrôn” (lazzarone) e lo lasciarono col suo mulo, che a stargli
vicino non se la sentivano. E lui viveva benone senza gli altri,
e gli altri meglio ancora senza lui. Un giorno s’accorsero che rubava.
Tutto ciò che gli riusciva. Pezzi di cinghia o chiodi vecchi, se
altro non c’era, ma rubare doveva. Gli misero alle calcagna un sergente
per tenerlo d’occhio. Fu quella la prima volta che parlò chiaro:
- Se non te ne vai non lo so cosa faccio. Ai lô sai nen, parola.
– E cavò di tasca il coltello. Invece d’andarsene il sergente se
n’andò poi lui, che gli cinghiarono sulle spalle lo zaino zeppo
di cartucce e lo spedirono ad una compagnia d’assalto, sperando
che una pallottola ci pensasse ad educarlo.
Due
mesi ci stette. Ma le pallottole non cercavano lui, forse ne schivavano
l’odore; e tanto meno lui cercava le pallottole. Cosa combinasse
non so. Me lo vidi arrivare su con una lettera del suo capitano
indirizzata a me. La lettera, che a stargli in tasca era diventata
color terra da ingrasso e profumata come l’avessero dissepolta da
un letamaio, suonava così: “ Caro ***, dicono che tu con i soldati
hai i muscoli di bronzo (veramente l’espressione era simile ma non
identica!). Guarda dunque se puoi spremere sugo da questa rapa marcia
che ti mando. Te lo spedisco prima che i miei soldati me l’ammazzino
come un rospo. Si chiama Marco Goira. Non ha matricola, libretto,
niente. Tienilo e goditelo.”
Lo
guardai. Non era certo intimidito dalla mia presenza, no. Dopo aver
frugato in ogni tasca ne aveva sortito una cicca; altra frugata
e comparve il coltello; ora sezionava accuratamente la cicca cercando
il punto più saporito. Non aveva zaino, giberne, fucile, nulla;
certo li aveva gettati per non faticare. Se si fosse raschiato via
lo sporco, qualche chilo di meno da portare l’avrebbe avuto, ma
a quello non ci pensava. Col dito si inchiodò la cicca tra i denti
e la guancia, masticò socchiudendo gli occhi bianchi, unica cosa
bianca della sua persona, poi sibilò di tra i denti la saliva nera.
|
Confesso
che mi sentivo perplesso. Cosa farne, con quella specie di rifiuto
umano? Forse l’unico tentativo era il trattarlo molto diversamente
da quanto era stato fatto sin’allora. Gli feci segno alla cicca.
– Buona, no? – Si riscosse un pochino e mi guardò sottecchi biasciando
una frase incomprensibile. – Allora sei venuto da noi? – Non rispose.
Ghignava un pochino facendo rizzare i peli ispidi del volto; forse
rimuginava che non precisamente per suo desiderio era venuto. –
Bravo Marco. Qui siamo tutti buoni ragazzi. Ci starai bene. - E
gli porsi la mano. Ebbe un brusco soprassalto e guardò un istante
la mia mano come affascinato; ma le sue, affondate nelle tasche,
non le cavava. Si comprendeva chiaramente che qualcosa in lui battagliava,
ed i suoi occhietti cisposi battevano irrequieti. Finalmente levò
lentamente una mano e, prima di porgerla, la fregò accuratamente
sul pantalone. Glie la strinsi, battendogli poi un colpetto amichevole
sulla spalla. – A me fa sempre piacere aver soldati nuovi. Bravo
Marco, diventeremo amici. – Stava già andandosene, curvo, strasicando
i piedi nelle scarpe deformi e scalcagnate, quando d’un tratto si
fermò, ritornando lentamente verso di me, le mani in tasca e lo
sguardo via. Ma quando fu vicino notai che le mani le cavò. – Come
l’ha ciamame, chiél? (come mi ha chiamato lei?) – Marco; non è il
tuo nome? – Restò un istante soprapensieri, poi sottò in una risataccia
sguaiata: - L’è vera, ai lô regôrdavô pi nen! (E’ vero, non me lo
ricordavo).
Presi
in disparte i caporali ed impartii loro la lezione riguardo a Slandrôn.
Trattarlo bene; guai a chi gli desse un soprannome, lo prendesse
in giro; se avesse la barba troppo da caprone far radere tutta la
squadra, e non solo lui; se la sua biancheria puzzasse troppo farla
lavare a tutti…Capito? Capito benone, avevano. E ci si misero di
buona lena, bravi ragazzi come sempre. Lui per una volta o due si
provò ad appagare la sua abitudine: andarsene lontano, solo, ad
assaporare il suo sporco nella beata solitudo.
Ma
qui s’era in trincea: sul Vodil i posti da fantasticare non si potevano
scegliere; in fila, s’era, tutti in una buca scavata lunga, e cji
si muoveva lo vedevano dall’alto e sparavano. E in fila ci dovette
stare. In compenso tappò la bocca, arrivando, con la cicca, e dopo
due settimane non l’aveva ancora aperta che per ingollare cibo.
E a me, dopo due settimane, cominciarono a cadere le braccia. Canagliate
non ne aveva fatte; vero. Ma avere in compagnia un blocco di sporco
raggomitolato in mutismo feroce, è come avere una diga tra affratellamento
di tutti. Io studiavo disperatamente ogni lato delle possibilità.
Ho la testa dura, da alpino, e quando decido una cosa, in fondo
ci devo arrivare. E avevo deciso di spremere sugo da quella rapa.
|
Notai
che non scriveva mai a nessuno. Un giorno me lo rimorchiai nel tragitto
ad una sentinella avanzata, ed a metà del camminamento deserto m’arrestai.
– Perché non scrivi mai a casa? Non hai niente da contare? – Questa
volta mi guardò dritto negli occhi. – Côntelo a chi? (a chi contarlo?)
– Ma.., a tua mamma. – Eravamo seduti, chè in piedi non ce lo permettevano
gli austriaci. Uno in faccia all’altro. Lo vidi come ripiegarsi
insensibilmente, quasi volesse nascondersi al mio sguardo. Mi vedevo
ora dinnanzi le due spalle curve, su cui pareva affondarsi il sudicio
cappello sformato. Era un sacco di sudiciume avvilito, un sacco
di rifiuti dall’orgoglio umano. Stette così lungamente. Mi sporsi
ad appoggiargli una mano sulla spalla; - E allora, Marco? – Ancora
biasciò nel rispondere, ma questa volta non per indolenza; gli si
vedeva tremolare convulso il mento spinoso: - A l’ai pa ‘d mare,
a l’ai niûn. (non ho madre, non ho nessuno) – Fu un attimo. Me l’attirai
accanto con manata affettuosa. – Perdio, hai me, adesso; hai i compagni...-
A quell’uscita che certo non s’aspettava si tirò bruscamente indietro
per squadrarmi; dapprima due occhi sospettosi. Temeva qualche scherzo?
Ma la sua espressione mutò subito incontrando il mio sguardo. No,
non scherzavo: sentivo io, dentro a me, il suo schianto nel dover
pronunciare la terribile frase: - A l’ai niûn. – Non scherzavo certo.
V’era tale espressione indefinibile nei suoi occhi, ora, ch’io attendevo
uno scoppio benefico di pianto. Invece scattò di colpo e come un
gatto scomparve lungo il camminamento.
Non
so che facesse per due giorni. Si ebbe un bel cercarlo; non lo si
vide. Ma non me ne importava, ora sentivo che sarebbe tornato. E
della sua assenza approfittai per raccontare ai miei alpini tutta
la miseria di quel ragazzo. Lo compresero subito, anime belle che
sono i montanari; non faticai certo a farmi promettere che l’avrebbero
trattato come un fratello. Arrivò al terzo giorno, poco dopo la
distribuzione della posta. Nulla gli chiesi, e lui senza dir nulla
si rificcò al suo posto. Vari soldati avevano ricevuto pacchi; gli
offersero dei dolci. Li rifiutò con un grugnito di sprezzo e si
girò dall’altra ciccando. Ma alla notte rubò la scatola del suo
vicino. Dove la ficcasse nessuno lo seppe mai, chè era una scatola
di latta grandina ed in tasca non ce la poteva tenere. Al mattino
si trovò solo una madonnina ch’era in fondo alla scatola, stracciata
in quattro pezzi. Bastò questo a disfare tutto quanto io avevo pazientemente
costruito per lui. L’alpini tollera tutto, ma il ladro no. Quello
della madonnina stracciata divenne suo nemico acerrimo e soffiava
sul fuoco per accendere gli altri. Il nomignolo di Slandrôn, balzato
fuori chissà da dove, gli ripiombò sulle spalle. Nel buio della
notte varie volte dovetti correre lungo la trincea a dividerli,
chè di cazzotti santi ne volavano a ceste. Una volta lui cavò il
coltello; ma gli furono addosso in quattro; il coltello glie lo
strapparono e lui lo conciarono male.
Per
fortuna, dico per modo di dire, s’intende!, arrivò proprio allora
l’ordine di “avanzare a qualsiasi costo” s’era nel novembre del
’16. Ed i soldati ad altro dovettero pensare che a Slandrôn. Io
me lo tenevo ora accanto tutto il tempo. Ero scoraggiato, ma non
ancora disperato. Mai gli dissi parola brusca, mai lo rimproverai.
Gli parlavo anzi come se fosse il migliore dei miei.
Arrivò
il famoso ordine di far saltare il Trucchetto.
La
buca si riuscì a farla, di notte, piano piano, lavorando a raschiare
come talpe; i tubi si riuscì a ficcarceli. Ma accenderli? Chi li
accendeva saltava anche lui. Lo sapevo io e lo sapevano i soldati;
così non me la sentii di dare l’ordine ad uno, chè a tutti volevo
bene. Tirai a sorte. Toccò a quel tale della
madonnina stracciata, il nemico di Slandrôn. Si erano abituati con
me, a non fiatare quando si trattava di servizio, e nulla disse.
Ma, al momento di sortire, il suo petto di bambinone colossale si
sollevò su d’un vero ruggito. – Oh i mè povri fieui! – Slandrôn
guardava lui ed io guardavo Slandrôn. Dapprima, sotto il sudiciume
del suo viso vidi raggrinzarsi un sorrisetto feroce che mi gelò;
ma, sentendo le parole del compagno, ancora nei suoi occhi si ridipinse
l’espressione indefinibile di quella tal volta del camminamento.
Si
mosse senz’altro con la sua solita aria cascante ed indolente e
prese l’altro al braccio: - Ti sta bel e ci – biasciò – ai vadô
mi (Tu sta qui. Vado io). E si toccò in tasca a sentire se aveva
i “bricchetti” per accendere la miccia.
L’altro
si chinava a baciargli la mano; egli la ritirò prontamente dietro
la schiena con un sorrisetto di compatimento, cattivo e soddisfatto.
– A t’ ses un vigliac. Ai vadô nen par ti. Ai vadô per chièl. –
E mi indicò col suo solito gesto noncurante della mano villosa.
Ma
nei suoi occhi v’era qualcosa di ben più grande, di quella frase
e quel gesto, qualcosa di già trasumanato quasi, che si scorge solo
nell’istante supremo. Prima ch’io mi potessi muovere lui era già
saltato fuori dalla trincea.
La
mina era forse messa male ed il Trucchetto non saltò. Saltò
sino a noi un pezzo di giubba sporca, orrendamente sporca: un pezzo
della giubba di Slandrôn.
NOELQUI
Pubblicato,
compreso i disegni dell’autore, sul giornale associativo dell’A.N.A.
L’ALPINO n° 13 del 15 luglio 1925.
* Noël Quintavalle, in arte Noelqui, artista e scrittore
d’origine ferrarese, già ricordato nel sito ( apri
biografia )
|